(di Luciano Villani)
La
questione del consenso al regime fascista, sebbene vanti ormai numerosi
studi, è ben lontana dall’essere sciolta. Essa presenta notevoli
insidie, a cominciare dalle modalità di utilizzo delle fonti
generalmente adoperate per analizzarla, in massima parte riconducibili
alle attività di «ascolto», controllo e repressione degli organi statali
e del partito fascista: fonti che scontano un alto tasso di «ambiguità»
e che vanno sottoposte ad uno scrupoloso vaglio critico. Vaste sono poi
le correlazioni tematiche dell’argomento: l’analisi andrebbe cioè
incardinata in una cornice che tenga conto di tutte le variabili – di
natura politica, ideologica, economica, sociale e psicologica – che
hanno agito ed influito sulle reazioni della popolazione di fronte
all’affermazione e durata nel tempo di un regime dittatoriale e
totalitario quale il fascismo è stato.
Un regime nel quale era vietato esprimere liberamente le proprie idee
e dove le opinioni di segno avverso non avevano modo di circolare, il
che pone seri problemi a chi oggi voglia tentarne una ricostruzione. La
fascistizzazione della società comportò l’ampliamento della base sociale
su cui poggiava lo Stato; alla politica si avvicinarono categorie fino
ad allora rimaste ai margini, ma secondo canoni e modalità di
coinvolgimento in ogni caso stabilite dall’alto. La partecipazione
attiva era assolutamente ricercata e richiesta, ma nelle forme di un
inquadramento subalterno, giustificato dalla necessità di riscuotere un
livello di approvazione ufficiale il più esteso possibile. Lo «spirito
pubblico» della popolazione era tenuto sotto costante osservazione da un
esercito di informatori e confidenti che relazionavano puntualmente
sugli umori in circolazione nel paese. La percezione del controllo portò
alla diffusione di tutta una serie di meccanismi difensivi, volti
sostanzialmente a non dare troppo nell’occhio nel tentativo di convivere
col fascismo ed evitare di andare incontro a sgradevoli conseguenze
personali. Un atteggiamento questo, che rinvia alla temibile capacità
persuasiva di cui disponeva il regime e al tempo stesso a quelle forme,
chiamiamole pure di adattamento, che, perlomeno in parte, racchiudono ed
esemplificano il senso di quel quotidiano rapportarsi con le inibizioni
del tempo, che a volte, sbrigativamente e impropriamente, è stato fatto
passare per «consenso».
In un siffatto contesto l’assenza di significative proteste o di
manifestazioni di aperto conflitto non è di per sé sufficiente a
suffragare l’ipotesi di un’adesione unanime al sistema vigente, né
possono essere sottaciuti aspetti determinanti che hanno condizionato a
fondo la realtà sociale italiana in quegli anni, per esempio la
costruzione di uno stato di polizia, un sistema di reclutamento
lavorativo che faceva perno sull’affidabilità politica e morale o
l’irreggimentazione della popolazione in organizzazioni fasciste di tipo
associazionistico e assistenziale da cui derivavano benefici e
opportunità altrimenti inaccessibili.
Ogni indagine che intenda cogliere stati d’animo, modi di pensare e
di agire al cospetto di un regime dittatoriale, deve saper distinguere
gruppi sociali, appartenenze, classi d’età, contesti geografici e
quant’altro possa aiutare meglio a comprendere le tipicità di ogni
comportamento. Le opinioni che avrà avuto del fascismo un giovane
ufficiale di ritorno dalle trincee saranno state diverse da quelle
maturate da un lavoratore arrivato in una grande città, alle prese con
la legislazione antimigratoria codificata nel corso del ventennio:
mentre è facile immaginare che il primo abbia ceduto al richiamo dei
miti vitalistici e di mobilitazione diffusi all’epoca, la condizione di
irregolarità del secondo avrà presumibilmente acuito un senso di
estraneità verso le istituzioni.
Le considerazioni che seguono si riferiscono a un contesto specifico,
quello della periferia di Roma negli anni Trenta e Quaranta, un
territorio vasto e al centro di grandi interventi di trasformazione, del
quale ci interessano in particolare gli strati sociali colpiti da gravi
difficoltà economiche e abitative, quali furono i disoccupati e i
sottoproletari delle borgate. Invero, il disagio sociale non era
attributo esclusivo della periferia: un rapporto della Questura di Roma
del 1933 metteva in luce come lo stato di miseria fosse diffuso in modo
«veramente sensibile» nei rioni Monti e Ponte, oltre che all’Appio
Metronio – dove erano ancora in piedi le baracche comunali erette nel
1911 –, nel quartiere di San Lorenzo, a Porta Maggiore e ben oltre le
mura, nel quartiere San Paolo. La povertà nelle borgate del suburbio non
dipendeva però da cause contingenti (come potevano esserlo la chiusura
di un certo numero di officine e laboratori oppure la conclusione di un
lotto di lavori pubblici), né era connessa solo alla mancanza di lavoro:
essa poteva ben dirsi costitutiva alle borgate stesse e traeva origine
anche dalla loro particolare situazione ambientale. Nelle borgate
costruite dal Governatorato tra il 1930 e il 1934 si conduceva una vita
primitiva, senza servizi essenziali (acqua, luce) e in condizioni
igieniche disastrose. le provvidenze assistenziali rappresentavano per
molti l’unica fonte di sostentamento, nonché un influente mezzo
propagandistico e di controllo affidato alla Federazione fascista
dell’Urbe, cui si affiancavano le missioni di enti religiosi.
Le borgate governatoriali erano prive di tradizioni politiche. I loro
abitanti, contrariamente a quanto supposto dalla letteratura corrente,
non provenivano, se non in percentuali estremamente ridotte, dai rioni
centrali «sventrati» dal regime, dunque con un portato di storia e
relazioni comunitarie «forti» alle spalle, ma nella stragrande
maggioranza dei casi da baraccopoli spontanee ormai demolite o da
abitazioni private lasciate in seguito allo sfratto per morosità. Una
popolazione perlopiù immigrata, scomposta ed eterogenea, formata in
prevalenza da operai, molti dei quali occupati saltuariamente nel
settore edile, in altri casi neppure in cerca di lavoro, abituati ad
arrangiarsi con espedienti di vario tipo, poco inclini alla cura di
interessi collettivi e, probabilmente, alla solidarietà («la solidarietà
dei poveri è una favola – scriveva d’altronde Ferrarotti nel 1974 in
riferimento alle storie di vita raccolte nei borghetti romani – la
povertà non è solidale. È un lusso che non si può permettere»),
piuttosto molto più propensi a campare alla giornata o a procacciarsi
l’elargizione di aiuti assistenziali.
Che tipo di opinioni avevano dunque queste categorie sociali nei
confronti del fascismo? Sebbene non sia facile stabilirlo, è possibile
avanzare qualche risposta a partire dai procedimenti giudiziari a carico
dei borgatari e dei ricoverati nei dormitori pubblici funzionanti in
periferia. È bene chiarir da subito che da un esame approfondito dei
fascicoli della PS relativi agli anni in questione, non emergono né
momenti collettivi di agitazione, né segnali tali da accreditare nelle
borgate una presenza dell’antifascismo organizzato. Quest’ultimo,
infatti, era radicato specialmente nei quartieri e nelle zone che
avevano manifestato ostilità al fascismo sin dal 1922 e dove, a corso di
gravi rischi, continuò a svolgersi un’attività di propaganda in senso
antifascista: la zona che racchiudeva San Lorenzo ed Esquilino, il
territorio compreso tra Valle Aurelia, Borgo e Trionfale, il triangolo
Ostiense-Testaccio-Garbatella, i paesi dei Castelli Romani. Luoghi che
vantavano una più antica tradizione operaia e in cui le idealità
anarchiche e socialiste avevano acquisito un certo peso sin dall’inizio
del secolo.
Sia altrettanto chiaro: socialisti di vecchia data, pregiudicati per
reati politici o sostenitori di idee emancipatrici risiedevano anche
nelle borgate, ma la loro presenza non contemplava l’iniziativa politica
e pertanto risultava pressoché inoffensiva.
Un profilo che ben si attaglia alla figura di alcuni borgatari,
refrattari alle idee del regime e pur tuttavia entrati in collisione
politica con esso per «futili motivi». Come accaduto per Rodolfo
Antonelli, lavorante in cristalli disoccupato, abitante alla borgata
Tormarancia, pregiudicato per furto e oltraggio. I suoi problemi con la
legge si aggravarono per uno scambio di opinioni sulla guerra avvenuto
in un’osteria con due sconosciuti, nel quale dichiarò di parteggiare per
la Francia, che, a suo dire, avrebbe vinto sicuramente la guerra
mettendo fine al fascismo in Italia. I due, qualificatisi infine per
fascisti, lo accompagnarono all’ufficio di polizia di Garbatella, dove
Antonelli affermò di essere un «socialista irriducibile», di aver
militato in quel partito da ragazzo e di aver pronunciato con pieno
senno le frasi all’osteria. Descritto come «ex coatto, dedito al vino e
al vagabondaggio», non aveva precedenti politici; la discussione di quel
pomeriggio gli costò tre anni di confino a Ustica. Diversamente andò a
Vincenzo Bonzani, manovale disoccupato abitante alla borgata Primavalle,
ammonito per aver gridato ubriaco a bordo di un tram: «Viva il
direttore dell’”Avanti”». Nel corso della perquisizione in casa fu
trovata una lettera scritta dalla moglie indirizzata al Fiduciario del
Gruppo fascista Madonna del Riposo in cui accusava Bonzani di aver
pronunciato frasi oltraggiose all’indirizzo di Mussolini e di aver più
volte sputato sulle sue foto, imputazioni confermate nel corso degli
interrogatori e testimoniate anche dalla subinquilina. Non si trattava
di sovversivi schedati. L’impressione è di avere a che fare con soggetti
che avevano sì mantenuto fede alle proprie convinzioni, ma senza
particolari propositi d’azione, esistenze che scorrevano indolenti,
benché non del tutto pacificate, scosse di tanto in tanto da gazzarre
domestiche o di strada. In questo come in altri casi, il senso di
frustrazione appare esacerbato dagli alterchi con coniugi, familiari,
vicini e conoscenti, che in determinate occasioni non esitano a
tramutarsi in testi d’accusa, a dispetto delle pur pesanti conseguenze
cui esponevano i congiunti, segno di una certa fragilità dei rapporti
sociali e di un ambiente in cui non mancavano istinti delatori. Spiate e
denunce a carico di «vociferatori» antifascisti erano frequenti anche
nelle borgate, per ragioni di ruffianeria o più banalmente per saldare
conti in sospeso e dunque a scopo vendicativo. Circostanze che
suggeriscono una correzione dell’assunto che le vorrebbe, in piena
dittatura, baluardi di coesione e fratellanza, sulla scorta di
un’immagine prevalsa a partire dal dopoguerra e che affonda le radici
nel ruolo di assoluta centralità che le borgate e i quartieri della
cintura periferica ebbero nella Resistenza romana.
Vittima di delazione rimase, per esempio, Giuseppe Capuano,
alloggiato nel dormitorio di Portuense. Nel leggere il giornale pare si
augurasse, nel caso di entrata in guerra, la sconfitta dell’Italia per
vedere la fine del suo «regime vessatorio». Accusato da un altro ospite
del dormitorio, probabilmente allo scopo di ottenere piccoli favori, fu
spedito al confino. Stessa sorte toccò ad Armando Archini, muratore,
domiciliato nel dormitorio di Primavalle assieme a moglie e figli. Ad
alta voce disse che responsabile dei suoi mali era senz’altro Mussolini e
che se lo avesse incontrato per strada non avrebbe esitato a
schiaffeggiarlo anche rischiando la fucilazione. La denuncia, sporta da
un vicino di letto, trovò conferma nelle deposizioni di un altro
ricoverato e del direttore del dormitorio.
Nel registrare l’assenza di un livello consapevole di antifascismo,
in grado cioè di pervenire all’allacciamento di reti e relazioni con
finalità politiche, oppure l’abuso di pratiche delatorie, per
conformismo o per tornaconto personale, non si vuol certo dimostrare la
prevalenza di una cieca obbedienza nel regime. Come si è visto, episodi
che rivelano un senso di malessere, o addirittura qualificabili nei
termini di una spontaneità dissenziente, magari poco avvertita e proprio
per questo impolitica e fine a se stessa, erano piuttosto consueti
nelle borgate e nei ricoveri collettivi. A volte tale atteggiamento
ricalcava più semplicemente un’indole poco rispettosa dell’autorità, che
certo mal si addiceva con la deferenza allora in voga verso l’ordine
gerarchico e la camicia nera. Per finire nei guai del resto bastava
poco, era sufficiente una risposta irriverente ad una guardia. È quanto
accadde, per esempio, a Renato Cefalo, domiciliato nella borgata
Pietralata: ad un augurio di «maggior prole» rivoltogli da un agente di
polizia rispose: «Va bene, ne farò altri tre! Italia piange, Vittorio
dorme, Benito succhia». Cefalo, che aveva preso parte alla campagna in
Africa orientale e non aveva precedenti politici, fu proposto per
l’assegnazione al confino di polizia, ma se la cavò con la diffida.
Diffidato fu pure Pietro Rosa, manovale della borgata Primavalle,
arrestato per essersi rivolto in stato di ubriachezza ad un milite della
MVSN con la frase «vai a fare in culo tu e il tuo padrone». Quello
delle frasi oltraggiose – a pubblico ufficiale o a esponenti del governo
–pronunciate in stato d’ebbrezza alcolica è un vero e proprio topos:
la frequenza di questi avvenimenti induce ad analizzarli quali momenti
di evasione da una realtà vissuta all’insegna del malcontento
inespresso, nei quali il risentimento per una vita di stenti,
dissimulato da sobri, emergeva in modo malcelato in piena sbornia.
Come valutare questi comportamenti? È possibile per essi parlare di
antifascismo in senso stretto? Probabilmente no, stante il fatto che si
trattava di individui che, in fin dei conti, nulla tramavano contro il
regime, al punto che nelle stesse carte di polizia per essi è frequente
la dicitura: «Non mostra rilievi nella condotta politica». Eppure,
ugualmente, il trattamento ad essi riservato ne fa di fatto degli
oppositori politici, al pari di convinti e indomiti agitatori. Il Testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza varato nel 1926 fu concepito in
maniera tale da annullare, o quasi, il confine tra veri e propri
dissidenti, indisciplinati e semplici indigenti, estendendo il concetto
di sovversivo all’intera gamma degli appartenenti alle cosiddette
«classi pericolose». Bastava insomma deviare dal comune sentire fascista
per essere sottoposti ai vincoli di un provvedimento persecutorio –
come l’ammonizione o la diffida – da un regime che necessitava non tanto
o non solo di un consenso entusiastico ottenuto su base volontaria,
quanto e soprattutto di un’approvazione all’apparenza uniforme, benché
esteriore e obbligata, su cui poteva ben riposare l’immagine di una
compiuta e organica comunità fascista. Per questo, gli atteggiamenti
«devianti» cui si è fatto cenno, per altro nient’affatto circoscrivibili
alle sole borgate, andrebbero in ogni caso collocati in una sorta di
tensione intermedia tra l’antifascismo e l’adesione, estorta o meno che
fosse, al regime, un argomento che si presta per una valutazione più
attenta riguardo il tema del «consenso». Anche perché punizioni così
severe servivano da monito a tutti gli altri.
Le condizioni intollerabili di vita che patirono i borgatari non c’è
dubbio che furono a un tempo il fattore principale che a lungo ne impedì
il pieno inserimento nella vita civile cittadina e il motivo scatenante
della loro viva partecipazione alla lotta di Resistenza. Un promemoria
della polizia politica del 22 dicembre 1943 informava la PS che a
Primavalle «la maggior parte dei vigilati politici e sovversivi sono
armati. Essi avrebbero devastato parecchi negozi, violato diverse case,
minacciando gli abitanti e derubandoli. La PS di Primavalle mostra di
essere nell’impossibilità di reprimere tali atti». In quel miscuglio di
banditismo sociale e lotta partigiana che caratterizzò la Resistenza
romana, gli antifascisti delle borgate, fino ad allora isolati, potevano
ora uscire allo scoperto.
tratto da: FestivaldiStoria