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Valerio Evangelisti: I primi anni del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina.


I primi anni del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina 

di Valerio Evangelisti (1987)




PARTE 1.

Ufficialmente fondato nel 1967, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina trae in realtà origine dal Movimento Nazionalista Arabo, creato quindici anni prima da George Habash - un medico palestinese di famiglia cristiana a quel tempo noto per il suo spirito umanitario e per le cure prestate gratuitamente ai meno abbienti. Quando l'MNA prende vita, ogni traccia di presenza culturale araba sul suolo della Palestina - ormai denominata Israele - sta lentamente scomparendo. Già da un quindicennio le avanguardie armate del movimento sìonista, violando la risoluzione delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947 (che assegnava ai coloni ebraici il 56% del territorio, pur rappresentando essi meno di un terzo della popolazione) (1) e approfittando del platonico intervento degli eserciti della Lega Araba (quindicimila uomini male armati e pochissimo convinti), hanno preso possesso dell'intero paese (2). Successivamente si sono preoccupati di porre rimedio all'inferiorità numerica della loro comunità. Oltre a cacciare o a deportare oltre frontiera migliaia di arabi restii a un esodo spontaneo, e a disperdere le tribù di beduini (3), si sono dedicati al sistematico smantellamento dei villaggi indigeni (Umm Rash-Rash, Ennan, Geuma, Katia, Khassas, Berat, Abu Gosh, ecc.), svuotati degli abitanti e demoliti letteralmente pietra su pietra (4).

Di 475 villaggi arabi censiti nel 1948, ne sopravvivono nel 1956 appena 90, mentre la presenza palestinese è stata completamente cancellata da otto distretti su quindici (5). Inoltre lo stato di Israele, data la sua natura intrinsecamente confessionale, ha proceduto a estirpare le vestigia della cultura preesistente alla sua fondazione. Non solo sono scomparsi, per forza di cose, i c1ubs letterari arabi e i circoli nazionalistici fiorenti negli anni Trenta, ma moschee, chiese cristiane, testimonianze artistiche e lapidi tombali hanno fornito materiali a buon mercato per la costruzione di kibbutzim e di nuovi centri urbani.

Non è quindi un caso se i primi tentativi di resistenza anticoloniale, dopo la sconfitta del 1948, investono la sfera della cultura e tendono invariabilmente a ricomporre un'identità nazionale palestinese quotidianamente minacciata di dissoluzione. In questo senso, il contributo iniziale del Movimento Nazionalista Arabo consiste nella pubblicazione di una rivista settimanale, Nashrat Al-Tha'r (1952-1958), presto divenuta importante palestra di pensiero per i letterati palestinesi in esilio, nonché per gli intellettuali arabi interessati a un'analisi non epidermica del trionfo israeliano (6). Certi toni antisemiti, e l'idealismo che impregna gli sforzi analitici dei collaboratori, inducono a considerare Nashrat Al-Tha'r un esperimento fallito. Tuttavia, la dura opposizione a un'assimilazione tra profughi palestinesi e popolazioni circostanti, quale caldeggiata all'epoca delle Nazioni Unite (7), e lo spirito di indipendenza dai regimi arabi dei paesi confinanti, leggibile in numerosi articoli, rendono la rivista momento non secondario della lotta per mantenere integro il profilo culturale e nazionale del popolo della Palestina.

Ma Nashrat Al-Tha'r, a differenza della Lega dei Poeti, della rivista Al-Ard e di altre esperienze coeve (8), non rappresenta un episodio della resistenza interna a Israele. A un pieno sviluppo di quest'ultima si oppongono ragioni di natura sia strutturale che ideologica. Appartiene al primo ordine di motivi la constatazione che, di oltre un milione di arabi abitanti la Palestina prima del 1948, ne rimangono entro i confini israeliani, dopo la guerra, i massacri (celebre tra tutti quello di Deir Yassin) (9) e le deportazioni, appena 320.000 (10). La sorte di costoro è tra le più infelici. Fin dai primi mesi successivi al suo insediamento, il governo israeliano vara infatti una serie di misure legislative tra loro concatenate, tese a impedire il ritorno dei profughi, a scoraggiare la permanenza degli arabi che sono restati e ad acquisire terre e beni già di proprietà palestinese.

Prima di queste misure è un'ordinanza del 1948 (tradotta in legge nel 1950) che dichiara proprietà dello stato tutti i beni dei nativi risultanti assenti dal paese alla data del 1° settembre 1948. Vengono così spogliati di ogni avere non solo quegli arabi che, in fuga dai teatri di guerra, alla data indicata erano lontani dal loro villaggio, ma anche molti che all'epoca si trovavano semplicemente in viaggio dentro o fuori della Palestina (11). Effetto complementare ha il ripristino dei regolamenti d'emergenza emanati nel 1945 dall'amministrazione mandataria britannica, a suo tempo vivacemente contestati dai coloni ebraici. Viene ad esempio concessa ad autorità civili e militari la facoltà di dichiarare 'zone di sicurezza' o 'zone chiuse' determinate aree abitate, allontanandone a tempo indefinito gli arabi che vi risiedono (molti di essi attendono ancor oggi l'autorizzazione a far ritorno alle proprie abitazioni, per lo più rase al suolo). Inoltre viene attribuito alle stesse autorità il potere di requisire i beni immobili dei cittadini palestinesi, qualora esista la necessità di sistemare nuovi immigrati israeliti o lo impongano non meglio precisate 'ragioni di stato'. A ciò si aggiunge il diritto, accordato dal Ministero dell'Agricoltura, di procedere all'esproprio dei terreni ritenuti incolti o mal coltivati - inclusi quelli che, trovandosi entro “zone di sicurezza”, non possono essere accuditi dai contadini arabi (fellahin) costretti all'esodo.

Completa questa sequela di aberrazioni giuridiche la “legge della prescrizione”, varata nel 1958, che concede la registrazione catastale di un terreno solo a chi dimostri di averlo ininterrottamente coltivato per almeno 50 anni (poi ridotti a quindici). La trasparente insidia della legge risiede nel fatto che, all'epoca del mandato britannico, non venivano rilasciati attestati di proprietà ai fellahin, né la disorganizzazione dell'Impero Ottomano aveva mai consentito una razionale catalogazione dei fondi.

Grazie a simili astuzie legislative lo stato di Israele riesce ad acquisire e a redistribuire ai propri coloni, nel volgere di pochi anni, 75.000 ettari di suolo urbano, 25.416 edifici e circa 100.000 ettari di seminativo (12) - comprese le terre waqf, appartenenti alle istituzioni religiose islamiche. Oltre ai fellahin costretti all'emigrazione, non sono pochi quelli obbligati a impiegarsi come braccianti avventizi sui poderi che fino a qualche anno prima erano di loro proprietà. Ma la situazione dei palestinesi riluttanti a emigrare, precaria sotto il profilo economico, lo è ancor di più dal punto di vista giuridico. La 'legge del ritorno' (1950) e la 'legge della nazionalità' (1952) accordano infatti la cittadinanza israeliana a qualunque ebreo si stabilisca nel paese, mentre ne dichiarano automaticamente privo qualsiasi arabo se ne allontani, ancorché per pochi giorni (13). Inoltre concedono la 'naturalizzazione' solo a chi, tra gli arabi nati in Palestina, può dimostrare di aver risieduto nel paese nei cinque anni precedenti la presentazione dell'istanza, possiede un permesso di residenza e si impegna a vivere per sempre entro i confini di Israele (14).

Il trattamento riservato agli arabi dallo stato israeliano è dunque di aperta discriminazione, che si traduce in segregazione razziale vera e propria se si considera il divieto, fatto agli studenti palestinesi, di accedere a determinate scuole e di assimilare storia e cultura arabe (spesso denigrate o addirittura derise nei libri di testo) (15), l'amministrazione partigiana della giustizia (16), la scarsa o nulla libertà di movimento e comunicazione tra villaggio e villaggio (17), l'esclusione dei nativi dai kìbbutzìm (18), il trattamento differenziato nelle prigioni (19), il rifiuto dell'acqua ai fellahin (20). Vigendo simili condizioni di inferiorità sociale, che si associa alla strutturale inferiorità numerica, appare evidente perché un moto di resistenza incontri difficoltà a svilupparsi in territorio israeliano se non in forma di opposizione culturale.

Il movimento di liberazione della Palestina nasce quindi con la peculiare caratteristica di muoversi prevalentemente all'esterno del paese che intende riconquistare. Ciò vale per Al-Fatah (sorta nel 1956), i cui primi fedayin (“volontari del destino”) agiscono sul confine tra Israele e l'Egitto (21). Ma vale anche per il Movimento Nazionalista Arabo, la cui sezione palestinese opera prevalentemente oltre frontiera. La dislocazione esterna obbedisce d'altronde ai limiti di impostazione ideologica cui si accennava, inizialmente comuni a tutte le forze antisraeliane. L'MNA professa un panarabismo nel cui ambito la liberazione della Palestina è momento essenziale, ma non necessariamente prioritario, di un più generale riscatto dei popoli mediorientali dal dominio coloniale. Tale visione induce sulle prime il Movimento (anche se in misura inferiore ad altre organizzazioni, come l'OLP originaria) ad affidare la riconquista della Palestina più a un intervento esterno dei regimi arabi progressisti, che all'iniziativa autonoma dei palestinesi stessi. Progetto che pare concretamente realizzabile dopo il colpo di Stato iracheno del 14 luglio del 1958, a seguito del quale un dirigente del MNA e stretto collaboratore di George Habash, Basil Kubeissi (uno dei futuri leader del FPLP), assume importanti incarichi nel ministero degli esteri della nuova repubblica.

Simili illusioni si giustificano col dominio ideologico incontrastato del 'socialismo arabo' di ispirazione nasserìana (di cui risente anche Al-Fatah), a sua volta ricollegabile a una precisa matrice di classe. Gli Harakyin (come vengono chiamati gli aderenti all'MNA, la cui denominazione araba è Harakat Al-Kaumìyn Al-Arab) sono in prevalenza studenti di estrazione medio e piccolo-borghese, reclutati nelle principali università mediorientali (22). Composizione che, come ha dimostrato Jean Ziegler (23), fino agli anni '60 e oltre si riscontra in tutti i principali movimenti di liberazione del Terzo Mondo, e che ne determina l'iniziale ispirazione genericamente umanitaria e saldamente nazionalistica. Come José Martí e Manuel Céspedes, assai più che Lenin o Marx, rappresentano le sorgenti ideologiche cui sulle prime attingono i leader rivoluzionari latinoamericani (24), così Nasser e Ben Bella, prima che Mao o Ho Chi Mình, sono le figure carismatiche che dettano l'operato degli Harakyin mediorientali. Le istanze egualitarie, pur sincere, non hanno ancora basi materiali per tradursi in scelte non equivoche a favore del socialismo; né l'estrazione sociale dei leader dell'MNA consente al Movimento, malgrado la sua diffusione geografica (Siria, Iraq, Giordania, Libano) e la sua notevole influenza, una ramificazione tra un sottoproletariato urbano e un proletariato contadino ancora privi di coscienza antagonistica.

Da notare che simile composizione resta invariata sia dopo la conversione dell'MNA al marxismo (avviata nel 1962 e statuita dalla sessione del Comitato Centrale del luglio 1967) che all'atto della fondazione, di poco successiva, del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Ancora nel febbraio del 1969, nel suo rapporto al secondo congresso dell'FPLP, George Habash è costretto ad ammetterlo con franchezza:

"Il Fronte Popolare, come organizzazione politica, attualmente non si conforma del tutto alla struttura di classe proletaria e operaia che costituisce la garanzia materiale e concreta del carattere rivoluzionario dell'organizzazione, che ne assicura la fermezza e la capacità di portare avanti la rivoluzione. L'organizzazione politica del Fronte costituisce in generale una spontanea estensione dell'organizzazione del Movimento Nazionale Arabo, per cui la struttura piccolo-borghese vi prevale. Continuare nella crescita spontanea, senza uno sforzo pianificato, avrebbe il risultato di confinare la nostra organizzazione soprattutto entro Amman e le città, con qualche appendice sussidiaria nelle campagne e nei campi profughi" (25).

Non è dunque la pressione di una base proletaria a determinare la scelta dell'FPLP a favore del marxismo-leninismo: è il rigetto dello pseudo-socìalìsrno nasseriano che induce un gruppo di intellettuali arabi a ricercare una progressiva compenetrazione con le masse popolari, sulla base di un disegno di “proletarizzazione” esposto da Habash con grande chiarezza:

"Non è sufficiente assicurare la struttura teorica rivoluzionaria del partito; questa struttura deve aderire alla struttura di classe. Il partito rivoluzionario, nel contesto palestinese, è il partito delle classi rivoluzionarie, operai e contadini in primo luogo. (...) Simile struttura di classe del partito non può determinarsi spontaneamente. Essa richiede una visione chiara e uno sforzo adeguato. (...) I nostri programmi organizzativi devono tendere a collocare i nostri più efficienti quadri dirigenti nei campi profughi e nei villaggi, per cui è necessario procedere a una analisi globale delle aree rurali e dei campi profughi, per poi concentrarci in modo massiccio in tali aree. Inoltre è necessario reclutare i giovani elementi locali che stanno prendendo coscienza e forgiare in loro solidi fondamenti teorici e organizzativi, in modo che la maggior parte del nostro corpo dirigente venga a possedere una rivoluzionaria fedeltà alla classe" (26).

Ma cosa induce dei giovani nazionalisti di estrazione piccolo-borghese a convertirsi al marxismo e a cercare di affidare al proletariato la direzione del movimento? Una prima risposta, specifica dell'ambiente politico palestinese, è quasi scontata. Sull'MNA-FPLP, come sugli altri movimenti di resistenza, incide in profondità la sconfitta araba nella cosiddetta “guerra dei sei giorni” del 1967. La disordinata rotta di eserciti teoricamente potenti coalizzati contro Israele è amaramente posta a confronto con le reboanti promesse di un Nasser e le minacciose dichiarazioni di uno Shukeiri (il notabile palestinese collocato dagli egiziani a capo della prima, fantomatica OLP) (27). Per gli Harakyin il nazionalismo 'puro' crolla in quei sei giorni, e con esso ogni residua fiducia nella capacità e volontà di riscatto anticoloniale di regimi sedicenti “progressisti” (28). Ma la scossa è salutare. Già il fallimento dell'unificazione tra Egitto e Siria aveva a suo tempo influito sui primi pronunciamenti dell'MNA a favore del socialismo (29). La dissoluzione completa di ogni ipotesi di liberazione affidata alle armate dei governi arabi agevola ora da un lato la sussunzione integrale del marxismo, dall'altro l'individuazione della centralità della questione palestinese e della necessità di una azione autonoma delle forze che se ne prefiggono la soluzione.

A tali conclusioni si perviene tramite una seria riflessione, ricca di toni autocritici, sulle esperienze negative di un passato anche remoto. Si nota ad esempio una continuità causale tra la sconfitta araba del '67, quella del '49 e il fallimento della rivolta palestinese antibritannica e antisionista del 1936. Continuità di cui Ghassan Kanafani, uno dei più brillanti intellettuali che collaborano con Habash, esporrà più tardi in un opuscolo le componenti fondamentali:

  1. la reazione interna;
  2. i regimi arabi attornianti la Palestina;
  3. l'alleanza tra imperialisti e sionisti.

E' questo triplice nemico che nel 1936, e sino alla terza sconfitta subita dal popolo palestinese nel 1967, ha lasciato le proprie impronte sul movimento nazionale palestinese in maniera più chiara che in qualsiasi epoca precedente” (30).

L'MNA-FPLP individua dunque nella presenza di un nemico interno, identificabile negli effendi (latifondisti semifeudali), nel notabilato tradizionale e nella borghesia araba, una delle cause della disfatta. Ma ciò significa passare dalla visione di una società omogenea e omogeneamente oppressa, tipica del nazionalismo piccolo-borghese, alla consapevolezza di una stratificazione in classi anche all'interno della società colonizzata, e quindi di una gamma differenziata di rapporti (dall'antagonismo, all'acquiescenza, alla coincidenza di interessi) con i colonizzatori. Consapevolezza che manca e mancherà sempre ad Al-Fatah e ad altre formazioni di resistenza, per le quali la comune oppressione subita dai palestinesi d'ogni ceto rende impossibile e controproducente la coniugazione di lotta di classe e di lotta nazionale.



PARTE 2.

La replica dell’MNA-FPLP a simili obiezioni, anche in virtù di un quindicennio di esperienza quale organizzazione nazionalista e panaraba, è, per bocca di Habash, puntuale e senza equivoci:

"Naturalmente, la struttura di classe in una comunità sottosviluppata differisce da quella delle comunità industriali. In una comunità industriale c'è una forte classe capitalistica contrapposta a una folta classe operaia, per cui la lotta fondamentale, in simili comunità, è un acuto scontro tra queste classi. Tale quadro non si applica alle comunità sottosviluppate. E' vero. Ma le comunità sottosviluppate sono anche comunità classiste, nelle quali vi sono classi dominanti sfruttatrici rappresentate dal colonialismo, dal feudalesimo e dalla borghesia. Dall'altro lato le classi sfruttate sono rappresentate dagli operai e dai contadini Ogni classe ha una propria posizione riguardo al corso della storia e nei confronti della rivoluzione.

Le classi superiori sono conservatrici, rifiutano il cambiamento e si oppongono al corso della storia, ma le classi inferiori sono rivoluzionarie, ricercano il cambiamento e sospingono la storia lungo il suo corso dialettico in avanti. Di conseguenza, la discussione sulla particolare natura delle comunità sottosviluppate è scientifica nella misura in cui scientificamente si limita a sottolineare la peculiare situazione di classe esistente in queste comunità, e la differenza con la situazione di classe nelle comunità avanzate. D'altro verso, essa diviene poco scientifica e condizionata da pregiudizi se trascura la questione sociale in queste comunità, o minimizza l'importanza della differente posizione di ogni classe nei confronti della rivoluzione” (31).

Da cui si vede come l'MNA-FPLP, riflettendo sulle ragioni delle molteplici sconfitte arabe, non solo approdi al marxismo, ma elabori un'analisi marxista originale e autonoma dal retaggio terzinternazionalista. Formulare l'intreccio indissolubile tra lotta sociale e lotta per l'indipendenza, ponendo in rilievo la struttura classista delle società sottosviluppate, vuol dire infatti rompere con un'annosa tradizione teorica che at-tribuisce un ruolo centrale alle borghesie nazionali del Terzo Mondo, escludendo o posticipando un contenuto di classe nella lotta di liberazione. Non è un caso se, in quegli anni, l'Unione Sovietica circoscrive il proprio sostegno ai regimi arabi ritenuti 'progressisti' (Egitto in primo luogo), trascurando le forze di resistenza, mentre quasi tutti i partiti comunisti 'ufficiali' riconoscono solo ad Al-Fatah il ruolo di avanguardia del risveglio palestinese.

L'originalità analitica dell'FPLP - che si manterrà intatta anche quando il Fronte, accantonando l'iniziale ispirazione maoista, perseguirà rapporti amichevoli con l'URSS - si giustifica alla luce del particolare clima internazionale in cui ha luogo la trasformazione ideologica degli Harakyin. La conversione dell'MNA al marxismo e la fondazione del Fronte Popo¬lare si collocano infatti, temporalmente e politicamente, in quello he potremmo definire il 'ciclo mondiale di lotte' del 1967-68. Per quanto la cosa possa stupire, esiste un Sessantotto arabo cosi come esiste un Sessantotto francese, tedesco, giapponese, italiano o statunitense. Gli impulsi motori sono gli stessi - rivoluzione culturale cinese, sacrificio di Che Guevara in Bolivia, guerra nel Vietnam. Ma se in Europa o in Giappone le conseguenze si esauriscono inizialmente in un ringiovanimento della sinistra e in una serie di mutamenti cultural-comportamentali (32), nelle aree del Terzo Mondo in cui è in atto una guerriglia antimperialista le ripercussioni sono più profonde. Gli esempi di Cuba, del Vietnam e della Cina dimostrano tangibilmente alle avanguardie anticolonialiste l'obsolescenza delle tesi che disgiungono liberazione nazionale e lotta di classe. Nello specifico, Cuba fornisce il modello di un movimento nazionalista che giunge ad abbracciare il socialismo, condannando alla marginalità i partiti comunisti latino-americani eredi della Terza Internazionale. Il Vietnam dimostra la possibilità di tenere in scacco l'imperialismo con una guerra di popolo che include il marxismo nel proprio arsenale di armi. La Cina addita il nesso tra rivoluzione sociale e rivoluzione culturale, oltre a fornire, tramite gli scritti di Mao, dettagliate analisi della struttura di classe e della guerra di guerriglia in una società sottosviluppata. La svolta marxista degli Harakyin si produce insomma allorché, su scala mondiale, fa la propria apparizione un marxismo tradotto in forme adeguate alle realtà del Terzo Mondo.

Ma esiste un terzo elemento, peculiarmente arabo, che rende ragione della conversione ideologica dell'MNA-FPLP, e la cui individuazione costituisce probabilmente il maggiore apporto di Habash alla rivoluzione palestinese. Come lo stesso Habash non manca di sottolineare ripetutamente (33), l'efficacia dell'azione della resistenza si smussa da principio contro lo scoglio di una mentalità araba irrazionale, non aristotelica, emotiva, irta di incrostazioni mistiche (sulle cui origini non è qui dato di indagare). Quella stessa mentalità che fa sì che la poesia sia il genere letterario più coltivato nel mondo arabo (il culto della parola risale ai primordi di quella civiltà) (34), ma che impedisce un'individuazione chiara e senza sbavature della fase, dei compiti, delle forze in campo. Le istanze morali, le reazioni indignate, gli impulsi di fierezza prevalgono spesso sull'analisi e sull'osservazione ragionata, dando luogo ad azioni tanto impetuose quanto incaute, confuse, prive di prospettive a lungo termine (la guerra del giugno '67 ne è un buon esempio). Anche la politica, in altri termini, si fa poesia, con tutte le conseguenze negative del caso. La grande intuizione di Habash consiste nello scorgere nel marxismo la scorciatoia più diretta, il veicolo più pratico e più sicuro per sottrarre la rivoluzione palestinese al dominio dell'impulso e consentirle di accedere a una razionalità di tipo occidentale (35). Si spiega cosi l'apparente schematismo della produzione teorica dell'FPLP, caratterizzata dall'essenzialità, dalle proposizioni scarne, dalle classificazioni insistenti, dalle enunciazioni elementari. In realtà, la struttura schematica cela una riflessione marxista niente affatto banale, ma anzi raffinata e creativa. Il fatto è che, per mezzo della schematizzazione, Habash tenta di imporre ai suoi fedayin una disciplina di pensiero, di costringerli a una razionalità e a un rigore logico contrapposti al pensiero arabo divagante della tradizione. Il marxismo è dunque per l'FPLP il mezzo per operare un'autentica sovversione culturale, fondata sull'introduzione di forme laiche e scientifiche di ragionamento nella lotta contro un nemico che nel pensiero razionale ha una delle proprie armi più efficaci.

Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina nasce dalla confluenza di tre gruppi armati (36). Il primo. I Giovani della Vendetta, altro non è che un'appendice guerrigliera palestinese dell'MNA, già attiva alla vigilia della 'guerra dei sei giorni'. Gli Eroi del Ritorno sono invece un raggruppamento costituito fin dal '66 sotto l'egida dell'OLP (ancora sottoposta all'influenza egiziana), ma presto conquistato alle tesi del Movimento Nazionalista Arabo.

Natura peculiare ha il terzo gruppo, denominato Fronte di Liberazione della Palestina. Sorto nel 1964, raccoglie sulle prime ufficiali nazionalisti provenienti da vari eserciti arabi, sotto la direzione di Ahmed Jibril e Ahmed Za'rur, cui si aggiungono combattenti il cui unico fine è la lotta armata antiisraeliana (37). Composizione che determina un orientamento prettamente militarista, privo di contenuti politici spiccati e suscettibile di condizionamenti da parte dei regimi impegnati, almeno nominalmente, a contrastare Israele. L'affluenza di simili elementi nel Fronte Popolare si spiega alla luce dei presupposti che inizialmente presiedono alla sua costituzione. Nelle intenzioni dei promotori (38), i compiti di elaborazione ideologica e di guida politica devono rimanere saldamente affidati all'MNA, la cui prospettiva globale e la cui caratterizzazione politica consentono la stesura di piani che oltrepassano la specifica questione palestinese. Invece il Fronte, come indica il nome stesso, dovrebbe essere una coalizione di organizzazioni distinte, unite da una comune strategia militare e da finalità politiche analoghe, per sommi capi, a quelle adottate dall'MNA in relazione alla Palestina.

Tale suddivisione dei compiti non regge alla prova dei fatti. Da un lato l'evidente centralità della questione palestinese fa sì che l'MNA dedichi a essa tutte le proprie attenzioni. D'altro lato, la stretta collaborazione tra Movimento Nazionalista e Fronte Popolare rende quest'ultimo largamente permeabile alle tesi ideologiche e strategiche dibattute dgli Harakyin. L'orientamento marxista dell'MNA non può dunque non contagiare il Fronte, e soprattutto l'ala facente capo a Nayef Hawatmeh - uno dei dirigenti politicamente più preparati e più sensibili all'evoluzione del marxismo internazionale.

E' soprattutto grazie ad Hawatmeh che il Fronte perde il proprio carattere composito, sovrapponendosi e sostituendosi all'MNA quale nucleo politico con funzioni di partito. Al primo congresso dell'FPLP, svoltosi segretamente in Giordania nell'agosto del '68, la frazione da lui guidata travolge le cautele di Habash - favorevole a un'ideologizzazione graduale - e propone un documento programmatico di chiara impostazione marxista (e di taglio, per cosi dire, 'sessantottesco'). Bersaglio fondamentale del documento, più tardi noto come 'Manifesto d'agosto', sono i regimi arabi - tutti i regimi arabi - che hanno cinicamente utilizzato la resistenza palestinese per fini di stabilità interna e di prestigio estero. Atteggiamento che tra l'altro ha significato l'imposizione di una tattica militare tale da sottrarre alle masse proletarie le armi per la propria liberazione:

"La vera causa della sconfitta del '67 dev'essere ricercata nel rifiuto, da parte dei regimi arabi, della guerra popolare. In realtà, la piccola borghesia temeva tanto le forze della reazione quanto quelle delle masse popolari. Per questo ha adottato - sul piano economico - solo delle mezze misure, e costituito - sul piano militare - solo degli eserciti regolari, evitando di armare le masse per la lotta liberatrice. (...) Ma il metodo della guerra popolare, come quello che è stato adottato in Vietnam e a Cuba, è la sola via che può portare alla vittoria dei paesi sottosviluppati di fronte alla superiorità tecnica e culturale dell'imperialismo e del neocolonialismo. Il suo rifiuto significa la sottomissione al sionismo e al neocolonialismo diretto dagli Stati Uniti. nemico principale di tutti i paesi sottosviluppati" (39).

Ma simile consapevolezza è mancata anche alle organizzazioni di resistenza, Fronte Popolare incluso. Certo, i movimenti di guerriglia non hanno delegato agli eserciti nazionali l'offensiva contro Israele. Hanno però evitato di scontrarsi con i regimi arabi, la cui natura oscilla tra il puro e semplice oscurantismo feudale, la subordinazione all'imperialismo e un ambiguo progressismo piccolo borghese, che non prevede alcuna mobilitazione delle masse popolari. La parola d'ordine della "non ingerenza negli affari interni degli Stati arabi", propria soprattutto di Al-Fatah ma sostanzialmente adottata da tutte le formazioni guerrigliere, tende a cristallizzare simile quadro, ostacolando e indebolendo i singoli movimenti di opposizione nazionali. Ma soprattutto trascura il fatto che gli Stati arabi intervengono invece di continuo negli affari palestinesi, proponendo e imponendo le proprie soluzioni - per cui "non ingerenza" può paradossalmente giungere a significare "una sorta di non intervento del movimento di resistenza negli affari palestinesi” (40). Impostazione evidentemente aberrante, che va duramente combattuta. La molteplicità dei nemici - imperialisrno, sionismo, reazione araba - comanda di articolare la lotta su più fronti, e di proporre soluzioni rivoluzionarie globali per la regione. A questo fine è però preliminarmente necessario strappare la causa della rivoluzione araba e palestinese dalle mani della borghesia, affidandola a operai e contadini:

"Solo queste classi sono rivoluzionarie, perché non hanno nulla da perdere se prendono le armi e combattono. Al contrario, hanno tutto da guadagnare: la loro terra e le loro case. Quelli che presero le armi, dopo la guerra di giugno, non furono certo i figli dei proprietari feudali e dei grossi borghesi, bensì i figli degli operai e dei contadini salariati (...). Certo, l'unità nazionale palestinese è una necessità, ma solamente se porta alla liberazione. L'unità è quella di tutte le classi e le forze politiche, ma sotto la direzione delle classi rivoluzionarie e patriottiche che presero le armi contro l'imperialismo nel corso della storia della Palestina" (41).

Le posizioni del gruppo stretto attorno ad Habash non sono dissimili, anche se non mancano, come si vedrà, sensibili differenze analitiche. Solo che la leadership storica dell'MNA concepisce la transizione dal nazionalismo al marxismo come un processo graduale, affidato, almeno per quanto concerne l'FPLP, a una paziente opera pedagogica condotta dal vertice nei confronti di una base ancora ideologicamente tentennante. Lo stesso vale per i rapporti con i diversi regimi mediorientali. Eccetto che in Iraq, gli Harakyin sono perseguitati quasi dovunque, e vari dirigenti dell'MNA hanno trascorso anni nella clandestinità e subito lunghi periodi di detenzione. Lo stesso Habash nel '69 verrà arrestato e condannato a morte dal governo siriano, e dovrà la libertà e la vita a un'azione di commando condotta dai suoi uomini. L'atteggiamento della dirigenza del Movimento Nazionalista nei confronti dei regimi arabi, fatta eccezione per alcuni elementi effettivamente schierati a destra, non può dunque essere particolarmente amichevole. Tuttavia è indubbia una notevole cautela iniziale, volta sia a evitare ulteriori persecuzioni ai danni delle varie sezioni nazionali, sia a non alienare i militanti meno consapevoli.

L'iniziativa di Hawatmeh - che riscuote il consenso della maggioranza dei congressisti, sorprendendo un po' tutti (42) - tende invece ad accelerare i tempi della trasformazione del Fronte in partito marxista-leninista. La reazione della componente puramente militarista dell'FPLP non si fa attendere. Nell'ottobre del 1968 il gruppo di Ahmed Jibril si separa dal Fronte popolare, accusando tanto Hawatmeh che Habash di sottovalutare la necessità del sostegno degli Stati arabi e di voler innescare un conflitto generalizzato, tale da indebolire la lotta contro Israele. I dissidenti danno vita a una nuova formazione denominata Fronte Popolare - Comando Generale, praticamente apolitica (malgrado un'autodefinizione socialista di maniera) e largamente permeabile all'influenza dei paesi 'amici' (Siria in primo luogo) (43).

Ma la scissione della 'destra' non calma le acque tra l' ‘ala sinistra' e il resto del Fronte. Anzi, i dissidi tra il 'gruppo Habash ' e il 'gruppo Hawatmeh' si aggravano fino a condurre alla pratica solidificazione di due organizzazioni distinte, dotate ciascuna di propri corpi dirigenti e di proprie milizie. Oggetto di contesa non sono solo i tempi più o meno lunghi della radicalizzazione in senso marxista, o il tema dei rapporti con i regimi arabi progressisti. Lo scontro si incentra invece sul ruolo stesso dell'FPLP, che Hawatmeh giudica entità obsoleta (al pari dell' MNA), sul rapporto con i partiti comunisti mediorientali e soprattutto sul giudizio relativo alla funzione della piccola borghesia nella guerra di liberazione (44).

La posizione della direzione storica del Fronte Popolare su quest'ultima questione viene compiutamente esposta nel corso del secondo congresso dell'organizzazione (Amman, febbraio 1969). Nel frattempo, però, la cosiddetta 'ala sinistra', dopo una serie di incidenti e persino di scontri a fuoco (45), ha scelto di sancire anche sul piano formale una scissione già operante di fatto, costituendo il Fronte Democratico Popolare per la Liberazione della Palestina (FDPLP, o anche FDLP) (46). L'entità del danno, in termini di sottrazione di quadri brillanti e competenti, è desumibile dal commento di Habash all'episodio:

"La scissione ci è costata cara, perché abbiamo perduto della gente molto preparata, dei dirigenti di valore. Ma siamo riusciti a trasformarci anche senza di loro. Se fossero rimasti si sarebbe potuto far meglio. Erano un po' infantili, un po' di estrema sinistra, ma se fossero restati si sarebbe andati avanti più rapidamente" (47).

PARTE 3.

A differenza del gruppo di Hawatmeh, che non riconosce ai ceti intermedi un ruolo specifico nella rivoluzione, Habash vede nella piccola borghesia, o quanto meno nella piccola borghesia palestinese, un soggetto potenzialmente antagonista all'imperialismo, al sionismo e alla reazione araba. Simile riconoscimento nasce da una duplice constatazione. In primo luogo quella del notevole peso numerico e politico che la classe piccolo-borghese (negozianti, studenti, artigiani, insegnanti, impiegati) ha nelle società sottosviluppate, in cui l'assenza di un tessuto industriale esalta la funzione economico-sociale dell'artigianato e delle attività terziarie (48). In secondo luogo, quella della particolare situazione dei ceti medi palestinesi in rapporto al resto della piccola borghesia araba. Simile analisi è, ancora una volta, esposta in termini la cui chiarezza non implica schematismo, ma piuttosto rigore:

"La ragione della presenza della piccola borghesia alla testa del movimento nazionale palestinese è che, nella fase della liberazione nazionale, questa classe è una delle classi rivoluzionarie: oltre al fatto che le sue proporzioni numeriche sono relativamente estese e che, in virtù delle sue contraddizioni di classe, essa possiede conoscenza e potere. Di conseguenza, in una situazione in cui le condizioni della classe operaia, sotto il profilo della coscienza politica e dell'organizzazione, non sono ancora abbastanza evolute, è naturale che la piccola borghesia debba trovarsi alla testa dell'alleanza delle classi che combattono Israele, l'imperialismo e la reazione araba. A tutto ciò dobbiamo aggiungere lo speciale carattere della piccola borghesia palestinese, e la differenza tra la sua posizione e quella della piccola borghesia araba che governa i regimi arabi nazionalisti. La piccola borghesia palestinese ha innalzato la bandiera della lotta. Oggi essa ha un ruolo guida e il fatto che non sia al potere la rende più rivoluzionaria della piccola borghesia araba, intenzionata a salvaguardare i propri interessi e a conservarsi al potere, evitando la lunga e decisiva lotta contro lo schieramento nemico" (49).

Appaiono dunque chiare le ragioni della cautela del Fronte nei riguardi dei regimi arabi, assolutamente non confondibili - malgrado le roventi accuse di Hawatmeh - con la 'non ingerenza' professata da Al-Fatah o dal Comando Generale. L'FPLP considera il processo rivoluzionario scandito in fasi e articolato in livelli giustapposti, uno dei quali - corrispondente alla prima delle scansioni temporali - è quello della lotta puramente nazionale e del riscatto antiimperialista. In questo stadio e su questo piano. la piccola borghesia araba e i regimi nazionalisti (Algeria, Egitto, Siria, Iraq) svolgono una funzione oggettivamente progressiva, che non può essere negata senza incorrere in una puerile semplificazione delle forze in campo. Ma naturalmente esistono una seconda fase e un secondo livello inscindibili dal primo - quello della rivoluzione sociale - alla soglie dei quali la volontà di riscossa della piccola borghesia araba vacilla e finisce con l'arenarsi.

Diverso è il caso della piccola borghesia palestinese, la cui collocazione politico-sociale reca indelebilmente le stimmate del trauma originario - la perdita delle proprie case, delle proprie terre e di tutti i propri beni. Tuttavia anche qui ogni semplificazione è nociva. L'ampio ventaglio di condizioni di vita, l'estraneità al processo produttivo, la grande mobilità sociale verso l'alto o verso il basso ostacolano una definizione univoca della posizione di questo aggregato in rapporto alla lotta rivoluzionaria. Sta di fatto che, se la direzione del movimento deve rimanere saldamente affidata al proletariato, è proprio nei ranghi della piccola borghesia che le classi subalterne riescono storicamente a reclutare i propri più fedeli alleati. Il Fronte Popolare deve dunque impegnarsi in una duplice battaglia. Da un lato deve acquisire il consenso degli strati piccolo-borghesi, aprendo le proprie fila ai migliori elementi di questi ceti e conquistando gli altri a una linea d'azione antagonista. Dall'altro deve lottare affinché la piccola borghesia (come classe, non come individui) non acceda alla leadership del movimento, introducendovi esitazioni e confusione d'intenti. Prima garanzia in questo senso è l'adozione di un programma politico e organizzativo inequivocabilmente operaio, tale da convogliare entro precise direttrici pratico-teoriche la militanza dei quadri di estrazione non proletaria.

Gli elementi di novità dell'analisi proposta dal Fronte risiedono essenzialmente nella sua flessibilità, inconsueta in un movimento di ispirazione marxista-leninista-rnaoista; nel suo realismo, dal momento che ammette la presenza della piccola borghesia nei gruppi dirigenti della resistenza e del Fronte stesso, senza cercare di sovrapporre le proprie aspirazioni a uno stato di cose con connotati differenti; e infine nella sua aderenza alla realtà sociale effettiva dei ceti medi palestinesi.

Quando l'FPLP tiene il suo secondo congresso, già da due anni Israele ha annesso ai propri territori, di fatto anche se non di diritto, la striscia di Gaza e la Cisgiordania (denominata 'Giudea e Samaria'), prive di insediamenti ebraici e abitate da oltre un milione di arabi, quasi tutti palestinesi. Sono cosi ricaduti sotto il controllo israeliano i profughi, esuli dalla Palestina fin dal 1948, stanziatisi in queste zone.

Sotto un profilo sociale, si tratta per lo più di salariati agricoli - magari un tempo coltivatori in proprio – e, in proporzione minore ma non trascurabile, di operai addetti all'edilizia o alle piccole imprese manifatturiere locali. Vi è inoltre un'ampia quota di popolazione che vive nei campi profughi, fruendo dei sussidi forniti dal UNRWA. Ma la figura più tipica, che le riassume tutte, è forse quella del rifugiato palestinese, che vive sì nei campi, lavorando però quale bracciante nei poderi circostanti o recandosi in città - a Gerusalemme, a Hebron, a Nablus, a Betlemme o perfino ad Amman - a svolgere mansioni di manovale o di operaio (50).

Questi strati subalterni, che il Fronte Popolare ha il merito di elevare per la prima volta a soggetto centrale della rivoluzione, non esauriscono però la composizione sociale della diaspora palestinese. Oltre a una borghesia araba vera e propria, composta da notabili, effendi e imprenditori che hanno conservato nell'esodo i loro beni (avendo già prima del 1948 importanti proprietà all'estero) e che continuano ad arricchirsi investendo negli emirati del Golfo e in altre zone lontane dai teatri di battaglia, esiste una variegata fascia sociale intermedia non assimilabile al proletariato. Si tratta di piccoli coltivatori diretti o di piccoli affittuari che, procuratisi qualche ettaro di terra in Giordania, hanno potuto distaccarsi dai campi profughi e conseguire un certo benessere (la valle del Giordano è rinomata per la sua fertilità). Oppure di commercianti che. grazie alla parentela etnica col grosso della popolazione giordana, sono riusciti a inserirsi nella vita economica locale. O ancora di insegnanti nelle scuole e nelle università di Hebron, di Nablus. di Gerusalemme e dei principali centri della regione, di medici, di avvocati, di studenti, di intellettuali. Una compagine dunque eterogenea, unificata però, oltre che dalla collocazione sociale (che non li vede né acquirenti né venditori di forza lavoro), dalla lingua, dalla cultura e da un forte sentimento nazionale, di solito privo di riflessi egualitari.

Rispetto ad altre piccole borghesie mediorientali, questi ceti soffrono delle contraddizioni ben individuate da Habash. Esclusi dal potere per la loro condizione di stranieri e per l'ordinamento feudale vigente in Giordania (paese privo di diritto certo, in cui l'omicidio non viene in pratica perseguito, mentre lo è qualsiasi sintomo di insofferenza politica), vedono per le stesse ragioni bloccata anche la loro crescita economica. Le scarse illusioni in questo senso sono d'altronde dissipate dall'occupazione israeliana del 1967. Oltre a imporre un regime di controllo militare (con tutte le conseguenze del caso: arresti arbitrari, uccisioni, umiliazioni, demolizione delle case dei soggetti 'refrattari', perquisizioni continue (51), i conquistatori non tardano infatti a vanificare, con la loro consueta sottigliezza legislativa, la faticosa ricostruzione di una società palestinese in esilio. Il copione è identico a quello del 1948. Ancora una volta le ordinanze militari sostituiscono, anticipano o integrano le disposizioni di legge.

L'ordinanza numero 58 decreta ad esempio l'acquisizione dei beni dei 'proprietari assenti' nel 1967 da parte di un conservatore statale, autorizzato a disporne come crede (52). Ne fanno le spese, ovviamente, i fellahin sfollati nel corso della guerra, a vantaggio dei coloni israeliani che iniziano ad affluire in Cisgiordania. Un'altra ordinanza dispone il passaggio allo Stato di Israele, che le affida a colonie ebraiche, di tutte le terre adibite a pascolo o coltivate in comune dagli abitanti dei villaggi arabi. Altre ordinanze ancora consentono l'esproprio di fondi per le solite ragioni di sicurezza ('area di sicurezza' è definita quasi tutta la valle del Giordano), per motivi di 'pubblica utilità' (fra cui rientra l'insediamento di nuovi kibbutzim) o per mancanza di proprietari individuali identificabili (ma per il codice ottomano, ancora vigente in Cisgiordania, tutta la terra appartiene giuridicamente allo Stato, mentre gli agricoltori non ne posseggono che l'usufrutto).

Per la piccola borghesia palestinese ricaduta sotto il dominio israeliano, non esiste quindi sviluppo possibile, né in termini economici né in termini di potere, cosi come non esiste futuro che non si sostanzi in una proletarizzazione più o meno rapida. Prospettiva che coinvolge anche coloro che vivono lontani dalle zone occupate, perennemente prigionieri del timore di un soprassalto espansionistico di Israele. Una piccola borghesia, dunque, psicologicamente insicura ed economicamente instabile. Ecco perché il Fronte Popolare, al pari di tutti i movimenti di liberazione del Terzo Mondo, vede un massiccio afflusso di giovani di estrazione piccolo-borghese nei propri ranghi. Ecco, altresì, l'elemento che consente, secondo le indicazioni di Habash, il passaggio dal pensiero atavico al pensiero scientifico, determinando il salto dalla lotta anticoloniale alla rivoluzione sociale e culturale. Jean Ziegler ha descritto con grande acume il fenomeno:

"La classe intermedia è in possesso della strumentalità tecnica, militare, simbolica dell'occupante. I suoi membri sanno analizzare una situazione economica globale, maneggiare un fucile mitragliatore, leggere una carta di Stato Maggiore, entrare in contatto con Stati esteri, mobilitare la solidarietà internazionale, servirsi delle comunicazioni moderne e organizzare un sistema moderno di logistica. Questo potere è dunque, in primo luogo, quello conferito dalla padronanza della strumentalità occidentale. Ma, quando parlo di strumentalità, non parlo unicamente di sapere tecnologico. La strumentalità acquisita da questi uomini e da queste donne non si limita a un qualunque sottoprodotto della meccanica o a una semplice scolastica dell'attrezzo. Più importanti ancora sono la rottura epistemologica col sistema ideologico dell'oppressore che questa avanguardia opera, le analisi inedite che essa sola è capace di formulare in ogni sequenza dei rapporti dialettici, in cui le contraddizioni si aprono tra la repressione del nemico e gli atti di resistenza del movimento di liberazione" (53).

La leadership dell'FPLP, rinnovata dopo il 1967 dall'apporto di alcuni tra i più vivaci esponenti dell'intellettualità palestinese (di cui Ghassan Kanafani, scrittore finissimo, resta l'esempio più illustre), è fedele rappresentazione di un'avanguardia siffatta. L'accento posto da Habash sul ruolo fondamentale della piccola borghesia in una società sottosviluppata denota dunque perspicacia. Ma altrettanto perspicace è l'insistente esortazione a trasferire la direzione del movimento dalla piccola borghesia al proletariato. Certo, l'operazione è resa difficile dalla sovrabbondante presenza, tipica anch'essa del Terzo Mondo, di masse fluttuanti e disgregate, dotate di coscienza di classe meno che embrionale, di capacità tecniche scarse o nulle, di un grado culturale infimo, di doti militari affidate all'istintività (54). Ciò nonostante, l'avanguardia di estrazione piccolo-borghese è perfettamente consapevole delle esigue forze di cui dispone, se sola, la propria classe di provenienza nella lotta contro uno dei tre principali nemici del movimento di liberazione - il nemico interno, rappresentato dal ceto dominante di origine feudale e dall'alta borghesia araba (gli altri due nemici essendo, come si ricorderà, il sionismo e l'imperialismo occidentale) (55).

La composizione multiforme della piccola borghesia, la pluralità di interessi rilevabile al suo interno, la sua stessa funzione economica (parzialmente autonoma, ma comunque condizionata al mantenimento della struttura di potere esistente) la rendono incapace di estendere la lotta agli oppressori esterni fino a inquadrare nella controparte i ceti privilegiati arabi, vincolati ai ceti intermedi da un troppo organico intreccio di rapporti commerciali e di relazioni clientelari. Eppure proprio negli strati privilegiati è constatabile la mai sopita tendenza a perseguire un accordo o una composizione con lo straniero, circoscrivendo, soffocando o contraddicendo gli ideali nazionalistici coltivati dalla piccola borghesia (56). Cosi come a tali strati è ascrivibile la perpetuazione dell'inferiorità politica ed economica dei ceti medi, in deciso contrasto con l'autonomia che questi ultimi aspirano a maturare quali protagonisti della lotta per il riscatto nazionale.

Di qui l'esigenza, presto avvertibile nelle avanguardie piccolo-borghesi più sensibili alla contraddizione tra la propria crescita e il ruolo frenante dei ceti egemoni, di mobilitare contro il nemico interno il proletariato - classe che, in virtù della sua predominanza numerica, del suo ruolo nella produzione e della sua oggettiva divergenza di interessi con i gruppi dominanti, è la sola potenzialmente in grado di rovesciare le strutture di comando e di impegnarsi in un conflitto con caratteri di globalità.

Si tratta però, come si è detto, di una falange dequalificata e soggettivamente disorganica, priva di tradizioni rivendicative e di cultura autonoma. Mobilitarla significa dunque, preliminarmente, costruire in essa una coscienza di classe, che le permetta un'immediata identificazione delle forze che si oppongono al soddisfacimento dei suoi bisogni. Significa, altresì, allettarla nell'unico modo possibile, e cioè introducendo motivazioni sociali e finalità socialiste nella lotta di liberazione. Solo in tal modo, infatti, il proletariato può accedere a quella cultura democratica e nazionalista che è alla base del risorgimento palestinese, e che tradizionalmente appartiene a fasce di ceti medi.

Cosi facendo, però, la piccola borghesia rivoluzionaria finisce con l'alterare la composizione sociale del movimento e l'ideologia che lo ispira. Lavorando all'unificazione delle masse subalterne e suscitando in esse la consapevolezza dei loro interessi collettivi, le trasforma da aggregato in classe, da coacervo oscillante in forza autonoma. Inoltre, aprendo la propria ideologia alle istanze e ai bisogni del proletariato, essa finisce per fare di questi ultimi l'asse teorico centrale del movimento, sovrapponendo al nazionalismo originario un'ispirazione socialista sempre meglio definita (il cui approdo è l'adozione del marxismo-leninismo, quale strumento più affilato per quel processo di razionalizzazione cui si accennava). Fino a che è il proletariato stesso, divenuto classe anche sul piano soggettivo, a prendere le redini della lotta di liberazione in vesti di protagonista - mentre le avanguardie piccolo-borghesi compiono un atto di suicidio sociale e di rigenerazione politica, rompendo ogni residuo legame con i ceti di provenienza e ponendosi al servizio dei nuovi soggetti rivoluzionari.

Riassumendo, tanto in Medio Oriente che più in generale in ogni regione del Terzo Mondo, è una frazione della piccola borghesia che, in opposizione ai ceti dominanti autoctoni, si incarica di forgiare sotto il profilo soggettivo un proletariato prima esistente solo a livello oggettivo, elaborando un'ideologia adeguata alle sue istanze e innestandola sul proprio originario nazionalismo. Di qui la rapida traslazione - constatabile non solo nell'FPLP, ma anche nel Movimento Popolare per la Liberazione dell'Angola, nel Fronte Sandinista nicaraguense, nel Movimento 16 Luglio cubano, nel Fronte di Liberazione del Monzambico, ecc - dalla lotta nazionale alla lotta nazional-sociale. Di qui, altresì. il nesso indissolubile tra il processo di democratizzazione inizialmente avviato dalla piccola borghesia (democratizzazione che nel contesto palestinese significa anzitutto laicizzazione, modernizzazione, pluralismo decisionale) e la rivoluzione socialista auspicata e condotta da strati proletari gradualmente educati all'autogoverno.

PARTE 4.

Logicamente, non è tutta la piccola borghesia radicale a impegnarsi nella costruzione di un'avanguardia proletaria, ma solo una frazione di essa - distinzione politica che, nel plurisegmentato quadro della resistenza palestinese, corrisponde a una speculare distinzione organizzativa. Quanto vale per il Fronte Popolare o per il Fronte Democratico non vale invece per Al-Fatah, per Al-Saiqa (gruppo addestrato dai siriani e rigidamente sottomesso alla loro tutela) o per l'FP-CG. Cosi come solo una frazione del proletariato palestinese si lascia conquistare dall'educazione all'autonomia avviata dall'FPLP. Ciò non toglie che la 'proletarizzazione' delle istanze dirigenti del Fronte venga perseguita con notevole efficacia. Agli inizi del 1970 Gérard Chaliand, un giornalista e saggista francese, visita una scuola quadri dell'FPLP nei pressi di Amman e si intrattiene con una sessantina di allievi. Constata che "l'età media è sui venticinque anni. Gli operai e i contadini poveri sono circa un terzo. Metà sono intellettuali o semi-intellettuali, maestri elementari e studenti. Il resto è costituito da impiegati, artigiani e piccoli commercianti" (57).

La piccola borghesia, in particolare nei suoi settori colti, continua dunque a prevalere, ma già si scorgono i primi segni della trasformazione in atto. Le realizzazioni decisive investono però il rapporto tra il Fronte (ma ormai potremmo dire il partito, visto che l'MNA è in via di estinzione) e le masse. Chaliand osserva che nelle località giordane in cui sorgono sedi del Fronte, gli uomini di Habash aiutano i contadini nei lavori agricoli, forniscono loro assistenza medica gratuita, danno vita a organizzazioni incaricate di migliorarne il tenore di vita. Lo stesso accade nelle zone industriali, in cui l'FPLP fruisce di un maggiore radicamento. Qui i fedayin spingono la popolazione a creare i primi sindacati, promuovono scioperi, tentano con successo di elevare i salari operai o bracciantili. Inoltre formano sezioni operaie, gruppi giovanili, milizie femminili (58) - novità, questa, realmente sconvolgente nel contesto della cultura araba, in cui alle donne è assegnato un ruolo rigorosamente subalterno.

In definitiva il Fronte Popolare, a differenza di Al-Fatah (i cui ranghi, in nome del principio della non ingerenza, sono aperti ai soli palestinesi), cerca di integrarsi nel territorio umano in cui si trova ad agire, perseguendo un ambizioso disegno di modernizzazione tanto dei rapporti politici quanto dei rapporti sociali. Si sforza cioè di modellare un proletariato non solo cosciente e combattivo, ma anche culturalmente svincolato dall'opprimente peso della tradizione religiosa (ivi compresa l'impostazione antisemita della lotta al sionismo (59). Rivoluzione sociale e rivoluzione culturale devono quindi intersecarsi a ogni passo. Progetto coraggioso, che trova il proprio più eloquente simbolo in Leila Khaled - la giovane comandante del Fronte che il 16 settembre 1970 si rende protagonista, a Londra, di un tentato dirottamento aereo (60). Per l'Occidente è un atto criminoso, ma per la società araba - palestinese e non - è un traumatico fendente inferto alla catena di pregiudizi e consuetudini retrive da cui è avviluppata.

Parallelamente, l'FPLP tenta di consolidare la capacità di autogoverno delle classi subalterne arabe, senza distinzione di nazionalità. Riferisce Chaliand, recatosi a visitare la valle di Ghor, in cui sorge una base del Fronte Popolare:

"Un grosso proprietario che non si faceva mai vedere nel villaggio aveva un appezzamento di dieci dunam (un ettaro) a maggese: i fedayin lo indussero ad accettare che i contadini, con l'aiuto e la protezione di alcuni di loro, coltivassero quel suo campo, dandogli in cambio una parte del raccolto. Tutto questo avveniva all'inizio dell'anno: alcune settimane più tardi il proprietario regalava il campo ai fedayin, e da allora non si è più fatto vivo. Si formò allora un comitato di contadini composto di tre persone, elementi dell'organizzazione popolare del Fronte; a loro si affiancarono due fedayin. Ogni dieci giorni, i problemi che sorgono a proposito della lavorazione del campo vengono discussi nel corso di una riunione del comitato, che avviene alla presenza dei responsabili della base. Una ventina di contadini, dopo aver coltivato i propri poderi, si recano a lavorare nel campo comune e poi riceveranno una quota del raccolto proporzionale al lavoro prestato. Altre quote andranno al Fronte e ai membri del comitato” (61).

Un'esperienza di gestione cooperativa limitata a un podere di un ettaro può apparire trascurabile. Rende però l'idea della complessità del progetto dell'FPLP, teso non a una semplice estensione della lotta armata, ma a rendere il movimento di liberazione nazionale cerniera di un diretto trapasso da rapporti di produzione feudali a forme produttive socialiste - la cui radicalità egualitaria non vada a scapito né dell'efficienza, né della necessaria gradualità del processo di maturazione dei lavoratori. Per il Fronte Popolare, cosi come per l'intera sinistra palestinese, la lotta armata è elemento determinante ma non momento esclusivo. Altrettanto importante è la forza dell'esempio, l'azione pilota, la costruzione di modelli attraverso il cui potere d'attrazione sia possibile innescare lo spontaneo sgretolamento delle forme sociali oscurantiste.

Il tutto in relazione non alla sola questione palestinese, ma al complesso della cultura e della società arabe. Come scrive Habash, "la grande lezione che noi dobbiamo trarre da quanto è accaduto dal 1967 fino a oggi, la lezione prima e fondamentale è che la rivoluzione palestinese non può essere vittoriosa se non diviene parte integrante della rivoluzione delle masse arabe in ogni angolo del nostro mondo arabo. La forza della nazione araba, le masse della nazione araba costituiscono la forza capace di vincere” (62). Considerazione che potrebbe essere rovesciata. Non può esistere rivoluzione araba che non faccia perno sulla rivoluzione palestinese (il che spiega, tra l'altro, la dissoluzione dell'MNA contestualmente alla crescita dell'FPLP). Solo un popolo che ha assistito alla totale distruzione delle proprie strutture sociali, constatandone cosi l'intrinseca debolezza, e che si è visto proiettare violentemente in un presente senza radici nel passato, può raggiungere una disinibizione culturale tale da essere indotto non a ripristinare l'antico, ma a battersi per una nuova e diversa società.

La dispersione territoriale dei palestinesi consegue dunque un duplice risultato. Da un lato conferisce alla loro identità di nazione una concretezza soggettiva del tutto inedita, che sconvolge i piani di estinzione culturale elaborati dal nemico (come a suo tempo - ironia della sorte - era avvenuto per gli ebrei, trasformatisi da comunità religiosa in popolo secondo percorsi interamente soggettivi). D'altro lato ne fa gli agenti di un rinnovamento tumultuoso delle comunità ospitanti. Ecco perché, nella sinistra palestinese, nazionalismo e rivoluzione sociale si coniugano a pieno diritto. Ecco altresì perché, in Medio Oriente, una sinistra con robuste fondamenta deve necessariamente avere radici nazionaliste. L'emancipazione popolare va di pari passo con la costruzione di un popolo.

E' facile, a questo punto, intuire la stretta similitudine che vincola il movimento rivoluzionario palestinese alle altre forze di liberazione del Terzo Mondo, e al tempo stesso la singolarità della sua fisionomia. Per quanto concerne il primo aspetto, va tenuto in considerazione un dato basilare. Non vi è praticamente movimento di guerriglia degno di nota che, nel corso del suo sviluppo, non operi per sottrarre all'avversario porzioni di territorio, sottoponendole per periodi più o meno lunghi al proprio controllo (63). In queste zone l'esercito di liberazione procede poi alla costruzione di proprie infrastrutture - scuole, ospedali, ecc. - fino a dar vita a un autentico sistema politico-amministrativo autonomo, totalmente svincolato da quello dominante e tutelato dalla presenza armata dei ribelli. Può trattarsi di un'intera regione, di un territorio ristretto ancora conteso (64) o, come a Cuba nel '58-59 o nel Salvador degli anni ‘80, di un Fronte in movimento (65). Sta di fatto che è nelle 'zone liberate' che la guerriglia 'si fa Stato', forgiando l'embrione della nuova società rivoluzionaria e coagulando attorno a essa il consenso popolare (66).

L'FPLP, e la sinistra palestinese in genere, operano alla stessa maniera. Solo che la loro peculiare situazione, che vede la resistenza dislocata esternamente al territorio nazionale occupato, impone di costruire una controsocietà - la 'zona liberata' - nel cuore di paesi stranieri. Il che rende inevitabile il conflitto con le autorità degli Stati ospitanti, poco propense a veder sorgere aree (per quanto di estensione minima) di diverso orientamento e politicamente autonome entro i propri confini. Di qui quella 'ingerenza' a torto rimproverata al Fronte Popolare e al Fronte Democratico, in occasione della crisi giordana del '70, da Al-Fatah e dai commentatori allineati alle tesi dei nazionalisti 'puri' (67). Proprio la costante inframmettenza dell'FPLP e dell'FDLP permette di classificarli tra i movimenti di liberazione nell'accezione anche sociale del termine. La tattica delle 'zone liberate' rappresenta infatti uno dei fondamentali criteri di collocazione in questo senso.

E' tuttavia innegabile che il tentativo di dar vita a 'basi rosse' in territorio giordano sia all'origine dei massacri del 'settembre nero' 1970. Ma l'esito catastrofico dell'azione della sinistra palestinese, in tale occasione, dipende non dalla natura del disegno di cui si fa portatrice, ma dalle difficoltà (spesso sottovalutate) incontrate nella sua traduzione in pratica. Difficoltà di ordine sia oggettivo che soggettivo. Tra le prime va ad esempio annoverata la condizione minoritaria della sinistra all'interno della resistenza. E' vero che il Fronte Popola-re è secondo solo ad Al-Fatah quanto a numero di aderenti, ma la somma di tutti i gruppi o gruppuscoli semplicemente nazionalisti (quando non manovrati da Siria o Iraq) rende il divario assai più ampio, ostacolando un progetto che, per conseguire risultati, dovrebbe essere globale (68).

Tra le difficoltà di natura soggettiva spicca invece il differente livello di coscienza delle masse palestinesi in rapporto a quelle giordane, a tutto vantaggio delle prime. Ora, un presupposto ineludibile alla creazione di 'zone liberate' in territorio straniero è l'acquisizione della solidarietà delle popolazioni locali. In molti casi il Fronte Popolare riesce effettivamente a coinvolgere il proletariato giordano nella lotta contro re Hussein, ma altrettanto spesso ne sopravvaluta la malleabilità culturale e il grado di consapevolezza, producendosi - tanto a livello di slogan che sul piano del comportamento - in troppo premature sfide a consuetudini inveterate, senza una preventiva campagna di sensibilizzazione graduale. Nel corso del suo terzo congresso (Beirut, 6-9 marzo 1972), il Fronte pronuncerà in proposito un'impietosa autocrttica:

'Vari gruppi di sinistra commisero errori infantili, fornendo alle autorità altrettanti pretesti per seminare confusione e giustificare le proprie lagnanze localmente, nel mondo arabo e sul piano internazionale. Alcuni furono errori sul tipo di parole d'ordine adottate, e nella pratica che ne risultò (come lo slogan 'tutto il potere alla resistenza', che isolò la resistenza dalle masse giordane). Altri furono errori nella prassi e nella valutazione delle conseguenze, come nel caso dell'antagonistico e provocatorio atteggiamento di sfida assunto nei confronti delle tradizioni e dei costumi delle masse" (69).

Con questo, il Fronte Popolare non intende certamente mettere in discussione punti programmatici basilari, come l'emancipazione della donna araba e la laicizzazione della cultura. Vuole piuttosto condannare il frequente abbandono del metodo dell'esempio, su cui la tattica delle 'zone liberate' è interamente fondata, a favore del metodo dell'imposizione, troppo spesso adottato dai fedayin durante tutto l'arco dell'esperienza giordana. Non bisogna reprimere usi e comportamenti diversi da quelli caldeggiati dalla sinistra, ma indurre le masse a modificarli spontaneamente grazie all'azione esemplare di quadri qualificati. Ciò vale anche per quanto concerne il grado di coscienza politica:

'Veicoli fondamentali di propaganda sono quei membri dell'organizzazione politica che lavorano in profondità tra le masse, conducendo riunioni di gruppo che illustrino al popolo le sue responsabilità e lo chiamino ad assolverle. Essi dimostrano anche al popolo come trasformare i suoi spontanei sentimenti patriottici e di classe in lotta rivoluzionaria - solo metodo capace di soddisfare i suoi scopi e le sue ambizioni" (70).

Ma tutto questo richiede consapevolezza, abilità e abnegazione da parte dei militanti - doti non facili da reperire allo stato spontaneo tra un proletariato privo di una memoria di unità e disciplina. Diviene quindi essenziale la funzione del partito marxista-leninista (assolta, al di là del nome, dal Fronte stesso), non solo quale fucina di quadri preparati, ma anche quale educatore collettivo e raffigurazione esplicativa di una nuova nozione di comunità. E' il partito marxista-leninista, con la sua struttura di piccolo Stato, che educa un popolo appena uscito dalla disgregante tutela coloniale a farsi società. Cosi come è il centralismo democratico, con la sua ferrea regolamentazione dei diritti e dei doveri, delle attribuzioni decisionali e dei loro limiti, che introduce i migliori elementi di un proletariato ancora ricco di connotazioni feudali a sedi di discussione 'guidata' via via più ampie, secondo uno schema razionale di alto valore pedagogico altrimenti sconosciuto. Senza partito marxista-leninista, senza cioè una salda avanguardia consapevole dei fini e internamente organica, non solo la tattica delle 'zone liberate' sarebbe improponibile, ma non sarebbe nemmeno configurabile una transizione rapida dal sottosviluppo alla modernità. Di qui la struttura rigidamente leninista, che, al pari di molti movimenti del Terzo Mondo, caratterizza l'FPLP. Non si tratta solo di potenziare l'efficacia della lotta. Si tratta di formare i quadri dirigenti della società futura, di cui il partito tratteggia il profilo - per cui il militante deve essere assai più di un semplice propagandista. Recita in proposito lo statuto del Fronte:

"Un partito politico rivoluzionario dovrebbe essere avanguardia e guida delle masse. A tal fine, i suoi aderenti devono raggiungere un livello di coscienza, di volontà di lotta e di correttezza di comportamento adeguati allo scopo. Ne consegue che se un membro del partito perde questa caratteristica essenziale, è il partito intero a perdere la propria capacità direttiva (...). Se scompare il confine organizzativo che separa il membro del partito dal cittadino qualunque, allora il partito ha perduto la sua posizione di avanguardia e di guida nei confronti delle masse” (71).

Simile impostazione è evidentemente dettata, oltre che da quanto si è detto, dai compiti militari che l'organizzazione deve affrontare nel suo assieme. Il Fronte, infatti, a differenza di altre formazioni della resistenza palestinese, non introduce alcuna distinzione tra quadri militari e quadri politici. Dettaglio motivato non solo dalla concezione della guerriglia propria dell'FPLP (non guerra tra eserciti, bensì 'lotta di popolo') (72), ma anche dalla peculiare impostazione della lotta armata dettata all'intera resistenza dalla sua dislocazione extraterritoriale.

In questo campo, l'assoluta singolarità della posizione dei fedaytn (e anche la loro grande debolezza) in rapporto ad altri movimenti di liberazione emerge con drammatico rilievo. Operando oltre le frontiere di Israele, la resistenza palestinese non può condurre un'autentica guerra rivoluzionaria (come pare credere l'FPLP, che impropriamente si richiama agli esempi cubano e vietnamita). Il territorio nazionale è interamente occupato da un popolo estraneo e ostile, né i nuclei di palestinesi rimasti in patria possono spingersi oltre la pratica della disobbedienza civile e dell'attentato sporadico. Vi sono, è vero, le centinaia di migliaia di palestinesi che abitano la striscia di Gaza e la Cisgiordania. Ma il cuore dello Stato israeliano risiede entro i confini fissati nel '47, e non nelle zone conquistate successivamente; mentre lo stesso cuore della resistenza palestinese fino al luglio '71 si trova in Giordania, e poi in Libano. Non è un caso se la guerriglia nei territori occupati (condotta tra gli altri, con grande abilità, da un militante dell'FPLP soprannominato Guevara Gaza, ucciso nel '73) cede il posto ad altre forme di azione via via che i fedayin, incalzati dalle controffensive israeliane e giordane, sono costretti ad allontanarsi dalla frontiera.

PARTE 5

La guerriglia palestinese ha dunque valore simbolico, nel senso che non si prefigge direttamente la riconquista del territorio nazionale. ma persegue obiettivi collaterali cosi riassumibili (seguendo parzialmente una traccia fornita dallo stesso Habash) (73):

  1. Impedire che lo Stato di Israele possa stabilizzarsi sia sul piano organizzativo che, soprattutto, sul piano della "sicurezza psicologica". Ciò è tanto più importante in quanto Israele vive sull'immigrazione. Le improvvise incursioni dei fedayin, all'apparenza slegate e non molto efficaci, tendono appunto ad arrestare il flusso migratorio, rendendone negativo il saldo (come in effetti risulta sia avvenuto). Anche azioni come l'attentato del 22 novembre '68 al mercato Mahane Yehuda di Gerusalemme (12 morti), rivendicato dall'FPLP. o l'esplosione di un ordigno su un autobus di Tel Aviv, il primo aprile 1969 si spiegano (senza volerle giustificare) nel quadro di questa tattica - ispirata più dal FLN algerino che dai vietcong o dai guerriglieri castristi.
  2. Danneggiare l'economia israeliana, fragilissima e in pratica puntellata dai sussidi statunitensi (magari fino a rendere il sostegno di Israele un onere troppo gravoso per i governi alleati). Tra le azioni dell'FPLP, tendono a questo scopo la distruzione della rete elettrica nel nord del paese, attuata nel dicembre '67; il sabotaggio, nel giugno '69, all'oleodotto del Mar di Galilea (che, inquinando le acque e impedendo la pesca, infligge un duro colpo ai kibbutzim rivieraschi; e soprattutto l'assalto con natanti a una petroliera israeliana negli stretti di Bab Al-Mandeb, nel giugno '71, che ha l'effetto di svelare, con grande imbarazzo degli interessati, l'uso che Iran e Arabia Saudita fanno dell'oleodotto di Israele (74).
  3. Dimostrare la sopravvivenza dell'identità nazionale del popolo palestinese, il profondo radicamento delle sue istanze e la sua determinazione - scopo che, di tutti, è indubbiamente quello meglio raggiunto (75), ed è dall'FPLP principalmente affidato ai dirottamenti aerei (di cui si parlerà fra breve).
  4. Un quarto obiettivo - l'innesco nella società israeliana di contraddizioni politiche e sociali tali da indurre il proletariato ebraico all'insubordinazione (76) - non viene invece conseguito che in misura irrilevante. A parte i rapporti che il Fronte Democratico intrattiene per qualche tempo con il gruppo di estrema sinistra Matzpen, il dialogo a distanza con le Pantere Nere di Israele (organizzazione di ebrei sefarditi, soggetti a discriminazione razziale per la loro origine non europea) (77) e le discrete relazioni con uno dei due partiti comunisti israeliani (il Rakah, a composizione però quasi esclusivamente palestinese) (78), l'alleanza con il proletariato ebraico resta nel limbo delle petizioni di principio. Anche gli strati inferiori della società israeliana godono pur sempre di una posizione privilegiata nei confronti della minoranza araba, né la questione sociale può aggravarsi al punto da spegnere in essi il sentimento nazionale.

La singolare natura della guerriglia palestinese trova riscontro nell'analoga singolarità del colonialismo israeliano, diverso da qualsiasi altro per origine e per sviluppo. Il movimento sionista (che si identifica nello Stato di Israele, e nel quale lo Stato si identifica a sua volta quasi completamente) non punta a dominare o a sfruttare la popolazione araba (anche se Gaza e Cisgiordania forniscono, all'occorrenza, abbondante manodopera a buon mercato) (79). Punta invece a un totale annientamento della presenza araba in Palestina, giustificato non da motivazioni puramente economiche, ma sulla base di una ricostruzione storica di natura essenzialmente mistica.

Il conflitto è dunque assoluto, senza mediazione o composizione possibile; la lotta tende costantemente ad assumere i caratteri di sterminio. Ogni israeliano, militare o civile, è agli occhi dei palestinesi un occupante e un usurpatore, contro il quale è legittimo l'impiego di qualsiasi arma. Ogni palestinese, civile o guerrigliero, è agli occhi degli israeliani un alieno minaccioso e ingombrante, da neutralizzare, allontanare o sopprimere. Se l'FPLP si propone statutariamente "la distruzione di Israele in quanto Stato" (80), Israele persegue, in tutte le sue componenti politiche principali, l'eliminazione fisica dei fedayin e la cancellazione dalla geografia, dalla politica e persino dalla memoria storica dei palestinesi in quanto popolo distinto. Né potrebbe essere altrimenti, salvo il venir meno della stessa identità israeliana.

La contrapposizione è accentuata dalla cultura di tipo europeo, solcata da venature colonialistiche e razzistiche, che gli israeliani rivendicano e che li induce a non vedere altro che barbarie all'esterno della propria oasi fortificata. E' questa, del vincolo culturale con l'Occidente, una carta vincente sotto più di un profilo. Oltre a rendere 'accettabile' il virtuale genocidio identitario posto in atto ai danni dei palestinesi (che, secondo un metro eurocentrico, rappresentano una popolazione arretrata indistinguibile da quelle confinanti), permette infatti di acquisire l'automatica solidarietà del vecchio continente, lieto di trasferire agli arabi la responsabilità morale accumulata con le persecuzioni antisemite succedutesi in Europa fino a metà del XX secolo. Consente inoltre a Israele di proporsi quale avamposto della civiltà occidentale nei confronti dei movimenti anticoloniali e delle forze che li sostengono, collocandosi all'intersezione dei conflitti Nord-Sud ed Est-Ovest e divenendo, con ciò stesso, pedina irrinunciabile dello schieramento guidato dagli Stati Uniti.

Non che Israele sia mero strumento dell'imperialismo, come anche l'FPLP pare credere (81). Il rapporto tra l'espansionismo israeliano e l'imperialismo statunitense, che risale alla nascita dello Stato ebraico (82), più che di subordinazione del primo al secondo è di strumentalità reciproca. Se c'è un 'agente' degli Stati Uniti in Medio Oriente è l'Arabia Saudita (83). Israele gode invece di un ampio margine di autonomia, intrecciando con i propri presunti 'mandatari' relazioni talora basate sulla comunanza di interessi, talaltra su veri e propri ricatti di natura sia materiale che morale. Il fatto è che l'azione di Israele non è interamente riconducibile a incentivi di carattere economico o politico. La sua natura di Stato apertamente confessionale, l'origine religiosa (e non etnica o storica) del suo insediamento e della sua dilatazione territoriale, fondano la scelta israeliana a favore dell'Occidente non solo su epidermiche ragioni di convenienza, ma anche sull'appartenenza a una medesima cultura giudaico-cristiana ritenuta - sulla scorta dei pregiudizi del colonialismo classico - per definizione superiore. Non è l'espansionismo israeliano a dettare a posteriori la propria giustificazione morale. E' un ancestrale retroterra etico ad avere nel colonialismo e nell'espansionismo il proprio corollario pratico.

Qui risiedono i motivi profondi della battaglia a difesa della supremazia occidentale, di dimensioni addirittura planetarie, in cui Israele si trova sin dagli inizi impegnato (quale che sia il governo in carica). Battaglia i cui momenti salienti sono l'entusiastico sostegno alla dittatura haitiana di Duvalier o a quella nicaraguense dei Somoza, l'azione contro il movimento di liberazione algerino, l'appoggio fraterno al governo razzista del Sud Africa, l'aiuto diplomatico e in armamenti offerto alle più sanguinose tirannie dell'Africa e dell'America Latina. Non esiste episodio di rilievo del conflitto Nord-Sud che non veda Israele farsi parte attiva a fianco delle forze conservatrici - si tratti dello sterminio degli indios guatemaltechi o del mantenimento dell'apartheid nella repubblica sudafricana. E ciò anche quando nessun interesse immediato è individuabile, o quando le potenze imperialistiche si sono già ritirate dalla lotta (come è il caso, in anni recenti, del Nicaragua).

Entro simile cornice la guerriglia dei fedayin acquista dimensioni politico-sociali dilatate, essendo rivolta a un tempo contro due civiltà - la civiltà araba tradizionale e la civiltà colonialista occidentale. Come far fronte a un simile compito? Le soluzioni proposte dalle due principali correnti della resistenza (Al-Fatah e FPLP) sono assai diverse tra loro. Dal momento che una rivoluzione interna a Israele è impossibile, Al-Fatah punta ad un coinvolgimento militare dei paesi arabi, attenuando ogni polemica nei loro confronti e facendosi, pur nel quadro di una rigorosa autonomia, forza coagulante dell'intera nazione araba. La stessa guerra di guerriglia, che causa al nemico perdite irrilevanti (anche se amplificate da comunicati del tutto inattendibili), pare indirizzata più a sensibilizzare i governi potenzialmente alleati che a scardinare lo Stato nemico. Considerazione parzialmente riferibile anche all'azione internazionale (condotta tramite l'OLP, organizzazione pluralista ma largamente egemonizzata dal gruppo di Yasser Arafat), tesa a conseguire sul piano politico una vittoria irraggiungibile sul piano militare, se non col concorso dei paesi 'amici'.

Assai differente la condotta dell'FPLP, data la diversa natura dei suoi obiettivi. Anche il Fronte comprende che le sole energie palestinesi non possono piegare Israele. Si tratta dunque di coinvolgere gli Stati arabi circostanti. Ma non quali essi sono, come per Al-Fatah, bensì dopo aver avviato in essi dei processi di trasformazione rivoluzionaria, in cui la resistenza palestinese funga da detonatore chiamando all'azione le popolazioni autoctone. Sarà la coalizione degli Stati sorti sulle rovine dei regimi reazionari che potrà aver ragione di Israele a fianco e sotto la guida dei fedayin. Reazione araba e sionismo vanno quindi abbattuti senza soluzione di continuità, nell'ambito di un medesimo sollevamento globale.

Ma, come si è detto, esiste un terzo nemico - l'imperialismo - alla cui tutela le altre forze sono sottoposte. Occorre allora fornire alla resistenza un vasto sostegno internazionale, capace di paralizzare la rete di alleanze che difende Israele e gli Stati arabi reazionari. Ciò è possibile non tanto tramite una generica attività diplomatica (il rapporto dell'FPLP con l'OLP è discontinuo e talora teso), quanto attraverso una stretta collaborazione con gli altri movimenti di liberazione e un ancor più stretto legame con l'Unione Sovietica (che presto sostituisce quale referente la Cina, dedita a una politica estera a dir poco incoerente) (84).

Non che il Fronte Popolare sia totalmente subordinato alle indicazioni dell'URSS (come lo sarà il Fronte Democratico dalla metà degli anni '70). I punti di frizione, alla luce della politica mediorientale sovietica (ratifica nel 1967, in sede di Consiglio di Sicurezza dell'ONU, dell'occupazione dei territori confinanti da parte di Israele; rapporti privilegiati con gli Stati arabi anche a detrimento della resistenza, ecc.) sono anzi numerosi. Scriverà Habash nel 1974, all'epoca del cosiddetto "fronte del rifiuto":

"I Sovietici sono nostri amici, teniamo alla loro amicizia. Ma, a imitazione dei rivoluzionari vietnamiti, noi dobbiamo mobilitare tutte le alleanze e metterle al servizio della strategia e della tattica della Rivoluzione. Come loro, dobbiamo evitare che il nostro attaccamento a questa amicizia con i Sovietici ci porti a subordinare gli interessi della Rivoluzione a quelli di un alleato, chiunque esso sia. Devo insistere tanto sull'amicizia dei Sovietici, sulla sua importanza e sulla nostra sincera gratitudine nei loro confronti, quanto affermare che spetta a noi elaborare i nostri programmi. Ed è possibile che compaiano tra queste due posizioni delle contraddizioni fondamentali: non potremo ignorarle, e farlo sarebbe cadere in una specie di dipendenza che ostacolerebbe il cammino della Rivoluzione” (85).
Risulta evidente che il Fronte Popolare, al pari di molti altri movimenti di liberazione, giudica indispensabile l'appoggio sovietico, l'unico in grado di consentire la conduzione e il successo di una guerra rivoluzionaria prolungata. Ma al tempo stesso comprende la necessità di salvaguardare la propria autonomia decisionale, a fronte di un alleato il cui aiuto non è sempre disinteressato e il cui impegno internazionalista cela un opportunismo talora cinico (anche se mai quanto quello cinese).

Sta di fatto che, dovendo combattere con poche migliaia di uomini un'intera coalizione di Stati, sorretta e guidata dalla maggiore potenza occidentale, l'FPLP non può evitare di inserirsi in un arco di alleanze altrettanto articolato. Ma il suo ruolo, come quello di Israele sull'opposto versante, non è passivo né subalterno. Come lo Stato sionista alimenta e difende le forze conservatrici di tre continenti, cosi l'FPLP, in forma del tutto speculare e di propria iniziativa, apre i campi di addestramento del Libano ai militanti dei principali movimenti di guerriglia del Terzo Mondo (86). Il confronto col nemico assume cosi dimensioni che non è esagerato definire titaniche. Agenti del Mossad percorrono ogni angolo della terra alla ricerca di capi della resistenza palestinese da sopprimere (vittima illustre di simile caccia all'uomo sarà, tra le file del Fronte, Ghassan Kanafani, assassinato con la nipote nelle vie di Beirut 1'8 luglio 1972). Dal canto loro, i fedayin di Habash iniziano ad attaccare direttamente - sulle prime in forma incruenta e puramente dimostrativa - i paesi occidentali che accordano a Israele il loro sostegno.

Rientra in questo contesto la serie dei dirottamenti aerei - culminata con quello, clamoroso, iniziato il 6 settembre 1970 e conclusosi con la distruzione di quattro velivoli (uno svizzero, uno inglese e due statunitensi). La reazione dell'Occidente, malgrado l'assenza di vittime, è rabbiosa - in flagrante contrasto, sia detto per inciso, con l'indifferenza manifestata nei riguardi dei continui bombardamenti israeliani sui campi profughi situati in Libano, che causano invece innumerevoli perdite umane (87). Lo stesso si può dire per il temporaneo sequestro degli ospiti stranieri di due alberghi di Amman, nel giugno 1970, operato al fine di porre termine alle rappresaglie dell'aviazione di re Hussein contro i rifugiati palestinesi in Giordania (88).

Formalmente condannata dall'OLP (che giunge a sospendere per qualche mese il Fronte), la tattica dell'attacco diretto ai paesi che armano Israele non tarda in realtà a contagiare le altre formazioni guerrigliere. L'organizzazione Settembre Nero, collegata a un'ala di Al-Fatah, attua il 18 maggio 1972 un dirottamento aereo che si conclude con l'uccisione di tre fedayin. Seguono altre azioni, tra cui il sequestro (sfociato in un massacro generale) degli atleti di Israele partecipanti alle Olimpiadi di Monaco - giustificato con l'illegittimità di una rappresentanza atletica proveniente da un paese sottratto ai nativi (89).

Dal canto proprio, lo Stato di Israele reagisce alle ferite inflittegli versando torrenti di napalm (da aerei di fabbricazione europea o statunitense) sugli attendamenti dei profughi della Palestina, dovunque essi sorgano. Lungo tutto il 1972 la guerra si imbarbarisce progressivamente. Il 26 febbraio la fanteria e l'aviazione israeliane compiono un raid punitivo nel Libano meridionale, uccidendo undici civili e ferendone una cinquantina. Il 30 maggio tre militanti dell'Armata Rossa giapponese - un gruppetto di ispirazione trotzkista - scendono per conto dell'FPLP all'aeroporto israeliano di Lod aprendo il fuoco sulla folla. I morti sono 28 (inclusi due membri del commando), i feriti oltre 90. Motivo dell'attentato, secondo il comunicato del Fronte (90), vendicare i tre dirottatori di Settembre Nero uccisi sempre a Lod 18 giorni prima e scoraggiare il turismo in Israele. Quale rappresaglia, il 30 maggio mezzi corazzati israeliani, scortati da una squadra di Mirage, attaccano i campi profughi del Libano, uccidendo 48 rifugiati e ferendone 55. Una nuova incursione, condotta nei giorni successivi alla strage di Monaco, provoca tra gli esuli altre 200 vittime civili. Parallelamente, proseguono le esecuzioni individuali da parte degli agenti del Mossad. Dopo Ghassan Kanafani è Wail Adel Zuaiter, militante di Al-Fatah e rappresentante dell'OLP in Italia, a essere assassinato a Roma il 16 ottobre.

La lotta tra gli antichi abitatori della Palestina e i nuovi occupanti non conosce ormai confini.

NOTE:
1) Cfr S. Hadawì, Idee chiare sulla Palestina, in AA.VV., La lotta del popolo palestinese, a cura C. Pancera, Milano, 1969, pp. 52-53. Per una rassegna delle principali risoluzioni dell'ONU sulla Palestina cfr l’opuscolo Le Nazioni Unite e la questione palestinese, Roma 1975.2) Per la dinamica degli eventi cfr. L. Gaspar, Hìstoìre de la Palestìne, voI. II, Parìs 1978; N. Weinstock, Storia del sionismo, vol. II, Roma 1970; S. Hadawì, Raccolto amaro. La Palestina dal 1914 al 1968, Roma, 1969, capp. VI e VII (che espone in prima persona, non senza qualche enfasi, il punto di vista dei Palestinesi stessi). Una ricostruzione sintetica vicina alle tesi del movimento sionista (fino a ignorare, in sede di bibliografia, l’abbondante letteratura prodotta in campo avverso) è in R Balbi, Hatikvà. Il ritorno degli ebrei nella Terra Promessa, Bari, 1983, pp. 129-143. Per quanto attiene alle origini della questione palestinese - la cui trattazione esula dai limiti di questo saggio - rinvio a quella che mi pare l'opera più esauriente sul tema: M. Massara, La terra troppo promessa. Sionismo, imperialismo e nazionalismo arabo in Palestina, Milano, 1979 (comprendente anche una vasta bibliografia).3) Cfr. S. Geries, Gli arabi in Israele, Roma, 1970, pp. 188 SS.; AA.VV., Dossier Palestina. Testimonianze sulla repressione israeliana nei territori occupati, Verona 1974, pp. 59-63.4) Cfr AA. VV., Dossìer Palestina, cìt., pp. 56-58. Il volume si basa su rendiconti di testimoni insospettabili.5) 1vi. pp. 57-58.6) Cfr. B. e N. Khader, La lunga marcia del popolo palestinese, introduzione a OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, Testi della rivoluzione palestinese. 1968-1976. Verona 1976. pp. 91-93.7) Ivì p. 93. Sulla resistenza dei profughi palestinesi a un' assimilazione da parte delle altre popolazioni arabe cfr. S. Hadawì, Raccolto amaro, cìt., pp. 183-187.8) Per le quali cfr. B. e N. Khader, op. cìt., pp. 89-91; S. Gerìes, op. cìt., pp. 278-299.9) Sull'episodio. citato con ricchezza di dettagli in ogni opera sulla Palestina, cfr. B. Uddine Toukan, Nella ricorrenza del massacro di Deir Yassin: 9 aprile 1948, Roma. 1969. Della strage. operata dall'Irgun e dalla banda Stern, rimasero vittime 254 persone, in maggioranza donne (35 delle quali incinte).10) Cfr. S. Hadawi, Raccolto amaro, cìt., pp. 210--211; Id., Idee chiare, cit., p. 81. Le cifre relative al periodo sono però assai incerte, e variano a seconda delle fonti.11) Sulla legislazione antiaraba e sui suoi effetti, talora paradossali, cfr. S. Geries, op. cit., pp. 190 SS. Cfr. inoltre M. B. Tosi, Anatomia di Israele. Milano, 1972, pp. 127-144; S. Hadawi, Palestine: loss of a heritage, S. Antonio, 1963; S. Geries, The legal structures for the exproprìatìon and absorbtion of Arab lands in Israel, in "Journal of Palestìnian Studies", 1973, n.4.12) Cfr. S. Geries, Gli Arabi in Israele, cìt., p. 193; E. Facchini, C. Pancera, Dipendenza economica e sviluppo capitali¬stico in Israele, Milano, 1973, p. 251.13) Cfr. G. Badi. Fundamental laws of the State of Israel, NewYork, 1960, pp. 156 ss.14) Cfr. S. Hadawi, Raccolto amaro, cìt., pp. 216-217.15) Cfr. S. A. Sayegh. La discriminazione verso gli arabi nell'istruzione in Israele, in AA. VV., La lotta del popolo palestinese, cìt.; Not two peoples - one people (intervista a Riad Al-Abìd Rasheed Abu Awad, leader studentesco palestinese), in "FPLP Bulletin", 1979, n. 28, p. 9.16) Cfr. F. Langer, La repressione di Israele contro i Palestinesi, Milano, 1977. Felicia Langer è un'avvocatessa israeliana.17) Cfr. B. e N. Khader, op.cit., p. 87; M. B. Tosi, op. cit., p. 135.18) Cfr. E. Facchini, C. Pancera, op. cit., p. 97; D. Meghnagì, La sinistra in Israele, Milano, 1980, pp. 42-43.19) Cfr. la testimonianza di A. Ben Yona in AA. VV., Dossier Palestina, cit., pp. 368-369.20) Ivi, pp. 369-370; E. Facchini, C. Pancera, op. cit., pp. 254 e 256.21) Cfr. B. e N. Khader, op. cit., p. 9322) Cfr. OLP, AL-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., p. 253. Il Movimento Nazionalista Arabo è stato spesso oggetto di ricostruzioni sommarie o denigratorie, fino a essere definito addirittura "una forma di fascismo sottosviluppato" (cfr. R Ledda, La battaglia dì Arnman, Roma 1971, p. 73). a scopi polemici nei confronti dell'FPLP. L'opera più completa ed equilibrata sul tema è però B. Kubeissi, Storia del Movimento dei Nazionalisti Arabi, Milano, 1977.23) Cfr. J. Ziegler, Les Rebelles. Contre l'ordre du monde. Mouvements armés de lìbération nationale du Tiers Monde, Paris, 1983, pp. 368 ss.24) Ivi, p. 369.25) PFLP. A strategy for the lìberatìon of' Palestìne, Amman, 1969, p.100.26) Ivì, pp. 99-100.27) Su questo personaggio - tipico esponente del notabilato palestinese - e sulla sua deleteria azione, cfr. M. Rodìnson, Israele e il rifiuto arabo. Settantacinque anni di storia. Torino, 1969, pp. 131 ss.28) Lo stesso avviene nell'intero mondo arabo, determinando un crollo di consenso popolare attorno al nasserismo e alle sue varianti nazionali. "Nel 1968, il simbolo del guerrigliero palestinese comincia a prendere il posto, nel cuore delle masse arabe, del demagogico leader militare. ( ... ) Una lunga fase di repressione dell'iniziativa patriottica e democratica delle masse, mascherata dall'illusione che regimi autoritari e burocratici possano conquistare una vera indipendenza, sta per finire. I popoli arabi lo capiscono ancora confusamente, all'indomani della disfatta. Ma lo capiranno meglio man mano che si inaspriscono le contraddizioni tra la loro volontà di combattere e la politica di camuffata capitolazione dei dirigenti". M. Husseìn, La lotta di classe in Egìtto, 1945-1970, Torino, 1973, P.284.29) Cfr. G. Chaliand, La Resistenza Palestinese, Milano, 1970, pp. 178-179. In appendice al volume di Chalìand, a dir poco ingiusto nei confronti del Fronte Popolare, l'editore italiano ha pubblicato un saggio dello stesso autore (Le double combat du Front Populaire, apparso in Le monde diplomatique del luglio 1970) in cui vengono radicalmente modificati i precedenti giudizi. A esso appartengono le pagine cui si rinvia nella presente nota.30) G. Kanafani, La rivoluzione palestinese del 1936-1939. Analisi, dettagli, retroscena (in arabo), Beìrut, 1974, p. 7. Come si dirà, Ghassan Kanafani venne assassinato a Beìrut nel luglio 1972. Quella citata è una riedizione, a cura dell'FPLP, di un saggio pubblicato pochi mesi prima della sua morte.31) PFLP, A strategy, cìt., pp.21-22.32) Questo per quanto riguarda il 1968. Già nel 1969 i moti di protesta inizieranno a investire le strutture dell'occidente capitalistico, quantomeno in Italia.33) Cfr. G. Chaliand, op. cit., p.185; PFLP, A strategy, cit., pp. 4-6.34) Cfr. R. Kalisky, Storia del mondo arabo, vol.I, Verona, 1972, pp. 39-42.35) Cfr. PFLP, A strategy, cìt., cap.XIII.36) Cfr. OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., p.235. Cfr. anche PFLP, A strategy, cìt., pp. 131 ss.; G. Chaliand, op. cìt., p. 100.37) Cfr. OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cìt., pp. 331-332.38) Cfr. PFLP, A strategy, cìt., pp. 131-132.39) Manifesto del primo congresso clandestino, in OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., pp. 286-287.40) Ivi, p. 288.41) Ivi, pp. 289-290.42) Ivi, p. 281.43) Sul FPCG cfr. OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., pp.331-333.44) Questi temi sono approfonditi in PFLP, Il Fronte e la questione della scissione (in arabo), Beìrut, 1970, che rappresenta uno dei testi teorici più importanti prodotti dal Fronte Popolare.45) Ivi, cap. IV.46) Il manifesto programmatico dell'FDPLP è riprodotto in C. Moffa (a cura di). La resistenza palestinese, Roma, 1976, pp.78-83.47) G. Chaliand, op. cit., p. 186.48) Cfr. PFLP, A strategy, cìt., p. 27.49) lvi, p. 32.50) Figura 'tipica' non equivale, naturalmente, a figura 'maggìorìtarìa' né 'prevalente'. A tale proposito va osservato che esistono profonde differenze nella composizione sociale riscontrabile, rispettivamente, nella striscia di Gaza e in Cisgiordania. La percentuale dei palestinesi ospitati nei campi profughi è maggiore nella prima che nella seconda regione, così come l'incidenza della manodopera disoccupata. D'altra parte la Cisgiordania comprendeva, prima dell'occupazione, il 48% delle industrie esistenti nel regno hashemita. Vi è dunque presente una classe operaia assai folta, che percentualmente costituisce la maggioranza della forza-lavoro attiva. Per un'analisi particolareggiata cfr. E. Facchini, C. Pancera, op. cit., pp. 279-288. Superficiali appaiono invece le considerazioni di G. Chalìand, che nega la presenza in Cisgiordania di un vero e proprio proletariato. Cfr. G. Chaliand, op. cit., pp. 194-196.51) Cfr. AA. VV., DossierPalestlna, cìt.52) Per una rassegna della legislazione israeliana tesa all'acquisizione di terre nei territori occupati, cfr. J. Kuttab, Au nom d'une loi injuste, in “Le Monde Diplomatique”, settembre 1983; M. B. Tosi, op. cit., pp. 144 ss. La. storia emblematica di una città della Cisgiordania sottoposta al dominio coloniale israeliano è narrata nell'articolo Judaizing Al Khalìl - Historical background, in “PFLP Bulletin”, 1983, n° 68.53) J. Ziegler, op. cit., p. 371.54) Può essere agevolmente generalizzata all'intero Medio Oriente l'analisi del proletariato egiziano condotta in M. Hussein, op. cit., pp. 31-39.55) Cfr. G. Habash, I nemici della rivoluzione, in OLP, Al-Fatah, FPLP, FDLP, op. cit., pp. 238-249.56) Cfr. PFLP, A strategy, cit., pp. 34-35.57) G. Chaliand, op. cit., p. 187.58) Ivi, p. 182.59) “La. nostra rivoluzione non ha carattere razzista. Non vuole gettare a mare gli ebrei, come pretendono calunniatori e nemici. La. nostra rivoluzione si batte per una reale alleanza tra tutte le forze oppresse e perseguitate all'interno di Israele, nel cui interesse dev'essere operato un radicale cambiamento rivoluzionario nella regione. L'obiettivo strategico della rivoluzione è uno Stato democratico e amante della pace, legato alla nazione araba e al movimento progressista mondiale”. G. Habash, The revolutionary task, s. l., s. d. (ma Beirut, 1973), pp. 8-9. Espressioni analoghe ricorrono in tutti i documenti de1I'FPLP, a cominciare dall'articolo 9 dello statuto.60) Sulla personalità di Leila Khaled, divenuta in seguito dirigente dell'organizzazione femminile dell'FPLP, cfr. il volume da lei stessa scritto: L. Khaled, Mon peuple vivra, Paris, 1973.61) G. Chaliand, op. cit., p. 183.62) G. Habash, Nous vaincrons, s. l., s. d. (ma Beìrut 1973), p. 30.63) Cfr. J. Ziegler, op. cit., pp. 80 e 332-333.64) E' il caso della striscia di Gaza, che per alcuni anni dopo l'occupazione del '67 vede gli uomini dell'OLP assumere ogni notte il controllo del territorio, esercitato dalle forze israeliane nelle ore di luce.65) Per il caso di Cuba, cfr. E. Che Guevara, Oeuvres, voI. III, Souvenirs de la guerre révolutionnaire, Parìs, 1977, capp. XXV e XXVI.66) Ciò non vale solo per il Terzo Mondo. E' l'esistenza di aree 'liberate' urbane che, in Europa, consente all'Irish Republican Army di condurre con continuità la propria battaglia contro l'esercito inglese - mentre l'impossibilità di costruire analoghe retrovie condanna altri gruppi armati europei al velleitarismo.67) Cfr. in particolare R Ledda, op. cit.68) "Questa atomizzazione del movimento palestinese in una decina di organizzazioni è di per sé singolare, se non unica, nella storia dei movimenti di liberazione nazionale, soprattutto se si pensa che il popolo palestinese supera appena la cifra di tre milioni di persone nel quadro di un gruppo etnico, linguistico e religioso relativamente omogeneo". G. Chaliand, Mythes révolutìonnaìres du Tiers Monde, Paris, 1979, p. 130.69) PFLP, Tasks of the new stage. The political report of the third national Congress of PFLP, Beirut 1973, p. 36.70) Ivì, p. 61.71) PFLP, InternaI rules and regulations, pubblicato in appendice a Tasks of the new stage, cit., p. 129.72) Ivi, p. 123 (art. 6).73) Cfr. G. Habash, I nemici della rivoluzione, cit.73) Cfr. G. Habash, I nemici della rivoluzione, cit.74) Cfr. F. Halliday, Il governo conservatore inglese e il Golfo Persico, in “Quaderni Piacentini”, 1971. n° 44-45, p. 110.75) "La rivoluzione palestinese, malgrado i suoi errori, è stata capace di provare davanti a tutto il mondo che esiste una causa, la causa di un popolo che non vuole arrendersi a nessun prezzo, malgrado tutte le cospirazioni ordite contro di lui da 50 anni, e questo persino il nemico deve riconoscerlo". G. Habash, Nous vaincrons, cit., p. 13.76) Cfr. G. Habash, I nemici della rivoluzione, cit. , pp. 243-244.77) Cfr. il volume Panthères Noires d'Israël, Paris, 1975.78) Su questo partito cfr. D. Meghnagi, op. cit., pp. 109 ss.79) Ivi, p. 147; E. Facchini, C. Pancera, op. cit., pp. 279 ss. Cfr. anche G. Habash, Nous vaincrons, cit., p. 22.80) Cfr. PFLP, Internal rules and regulations, cit, p. 122 (art. l).81) Cfr. PFLP, A strategy, cit., pp. 11-13.82) Cfr. G. Valabrega, Medio Oriente. Aspetti e problemi, Milano, 1980, pp. 18 ss.83) Cfr. F. Halliday, La politica di Washington nel Medio Oriente, in 'Quaderni Piacentini', 1974, pp. 7-14.84) Per un esame della politica cinese nei confronti dei movimenti di liberazione del Terzo Mondo cfr. G. Chaliand, Mythes révolutionnaires, cit., pp. 237-243. Il punto di vista del Fronte Popolare è espresso nell'articolo Full support to the Vietnamese revolution, in “PFLP Bullettin”, 1979, n° 25.85) G. Habash, No al negoziato e a uno Stato provvisorio, in OLP, Al- Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., pp. 274- 275.86) Ad esempio al nucleo originario del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale. Cfr. J. Ziegler, op. cit., p. 105.87) Commenta Habash: "Per quanto riguarda i dirottamenti di aerei, a parte quello di Zurigo che ha fatto due vittime (dei nostri, peraltro) noi ci siamo sempre preoccupati della sicurezza dei passeggeri. Nessun occidentale ha pagato alcunché a causa di essi. ( ... ) Evidentemente abbiamo violato il diritto internazionale, ma si trattava di aerei israeliani o di compagnie particolarmente legate a Israele o comunque di noti alleati del sionismo. ( ... ) Se in Occidente sono stati deplorati o hanno fatto tanta impressione, tra i palestinesi e tra le masse arabe in generale, i dirottamenti sono stati visti con simpatia; ed è questo che conta per noi". G. Chaliand, La. Resistenza Palestinese, cit., pp. 185-186.88) Cfr. L'opuscolo di G. Habash, Our code of morals is our revolution, s.l. (ma Amman), 1970, che riproduce il discorso rivolto dal leader dell'FPLP agli stranieri sequestrati, al momento di rimetterli in libertà.89) Cfr. OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., pp. 339-340. Cfr. anche G. Mury, Septembre Noir, Paris, 1973.90) Riprodotto in C. Moffa, op. cit., p. 120.

                                                                                                                    Tratto da: PalestinaRossa

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SCIOPERO GENERALE mercoledì 25 novembre 2020

 

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